E niente, alla fine è successo davvero: meno di un mese fa due biondi miliardari della Silicon Valley hanno inaugurato l’era del turismo spaziale lanciandosi nella mesosfera. Il primo è stato Richard Branson, anni 71, patrono della galassia Virgin, commosso come un bambino si è aggrappato in diretta satellitare ai sedili della sua StarShipTwo confessando che, nonostante un impero economico da miliardi di dollari, il suo vero sogno lo stava realizzando solo in quel momento, in quei dieci minuti sospeso oltre l’atmosfera terrestre.
Qualche giorno più tardi l’ha seguito Jeff Bezos, 60 anni quasi compiuti, celeberrimo fondatore di Amazon; appena sceso dalla BlueOrigin ha annunciato che se proprio non dovessimo riuscire a salvare la Terra ci sarà sempre qualche altro pianeta pronto ad accoglierci per salvarci dall’estinzione. Questi ultimi accadimenti si sono uniti al clamore suscitato dalle esplorazioni su Marte rafforzando l’idea che lo spazio sia sempre più abbordabile, ma anche il timore che, se non iniziamo subito a chiederci come lo vogliamo approcciare, questo entusiasmo rischierà di volgersi nell’ennesimo due di picche con cui fare i conti negli anni a venire.
Marte is calling
Al momento la brama di colonizzazione del pianeta rosso polarizza l’immaginario delle maggiori potenze mondiali: NASA e Agenzia Spaziale Europea stanno stanziando 25 miliardi di dollari l’anno per un secondo sbarco sulla Luna, a cui seguirà la creazione un avamposto per raggiungere Marte teoricamente già nel 2030; la Cina ha già sguinzagliato le sue sonde a caccia di tracce di vita pregressa sul suolo marziano, mentre gli Emirati Arabi Uniti contano di iniziare a costruire città in loco entro il 2117.
In questa corsa all’oro rosso la strada è spianata dall’apertura dei giochi anche ai privati come Elon Musk, che garantisce che la sua compagnia SpaceX sarà in grado di portarci a spasso su Marte già entro sei anni, e di costruire insediamenti stabili per il 2050. Decennio più decennio meno, l’unica cosa su cui in questo momento tutt* concordano è che l’essere umano un giorno sicuramente lassù ci arriverà.
Il lancio di esseri viventi nello spazio non è partito sotto i migliori auspici: il primo in assoluto del 1957 ha visto il sacrificio della cagnolina Laika a bordo dello Sputnik 2 e ancora oggi, dopo aver mandato avanti cani, gatti e scimpanzè, il massimo successo che abbiamo riportato è stata la dispersione di un nugolo di tardigradi sulla Luna. Eppure tutte le imprese progettate e tentate confermano che, almeno per l’uomo, il sogno di andarci in carne ed ossa è più vivo e bruciante che mai.
Per il momento lo coltiviamo grazie ai prodidigi della telepresenza, coordinando i corpi di robot con nomi naïf come Ingenuity, Perseverance o Curiosity, che ci permettono di percorrere l’ambiente alieno con i piedi ben saldi ancora qui sulla Terra. Questo di per sé era stato un evento dirompente già ai suoi esordi, quando l’allunaggio venne seguito in diretta da miliardi di persone attraverso lo schermo di un televisore. Già allora le immagini si sostituivano allo spazio fisico per permetterci esperienze interstellari, al punto da portare Joseph Kosuth a dichiarare che nessuna opera d’arte avrebbe mai potuto competere con un fenomeno del genere.
Questo evento impressionò parecchio anche il buon Eduardo Kac, padre della Telepresece Art, che nel 1993 ci costruì sopra un’azione collaborativa chiamata Ornitorrinco on the Moon. Ornitorrinco era un robot progettato per essere comandato a distanza attraverso la linea telefonica; per l’occasione venne collocato all’interno della School of The Art Institute di Chicago e teleguidato da visitator* posizionat* nella Kunstlerhaus di Graz, in Austria. Pigiando un qualsiasi numero della tastiera del telefono l* utent* di Graz inviavano un comando al robot che lo eseguiva a Chicago, restituendo feedback in forma di immagini in bianco e nero.
Questi scorci erano ripresi da un punto di vista non umano – ovvero quello di un marchingegno alto 60 cm – e restituivano un’idea straniante e iper soggettiva di quello che lo spazio remoto avrebbe potuto apparire a un* visitator* in carne ossa: un modo efficace per riflettere sulla qualità delle nostre esperienze estraterrestri.
Tuttavia se un giorno il turismo spaziale si farà una cosa seria e non più solo un lunapark per miliardari bianchi, e i robot dovessero rivelare che Marte ha da offrire all’uomo qualcosa di più di un sacco di sensazionalismo, allora ci troveremo ad affrontare una serie di problemi di ordine pratico, a cominciare da se dovremmo davvero andarci a vivere oppure no.
In uno dei saggi che trovi in nota qui sotto Francesca Ferrando fa notare che questa è una falsa questione, perché noi nello spazio a dire il vero ci siamo già. Pensarci in qualche modo disgiunti dal resto del cosmo è cadere nell’ennesimo equivoco antropocentrista. Meglio sarebbe volgere la domanda in questo senso: il fatto di avere la tecnologia adatta per trasferirci su altri pianeti, ci dà automaticamente il diritto di farlo?
Space Oddity
Una volta e se avremo stabilito con certezza che lo spazio ha tanto da darci e noi da dare a lui, il secondo grande ostacolo che dovremmo affrontare sarà quello di natura biologica. Perché il motivo per cui l’uomo non si è ancora stabilito oltre la linea di Kàrmàn è che la nostra struttura corporea non è adatta alle altitudini estreme. La nostra carne è fatta per vivere sulla Terra, in specifiche condizioni climatiche, atmosferiche e di gravità.
L* transumanist* – guardacaso per la maggior parte della Silicon Valley – ci allertano da decenni su questa problematica puntando sul potenziamento del nostro materiale organico tramite l’innesto con la macchina. Lo stesso concetto di cyborg è stato introdotto per la prima volta in funzione di una vita extraterrestre nel saggio “Cyborgs and Space” del duo Clynes e Kline, nell’anno domini 1960.
Secondo i due autori per abitare lo spazio a nulla sarebbe servito costruire ecosistemi specifici o adattare quelli esistenti alle necessità umane, piuttosto sarebbe stato il nostro corpo a doversi modificare per rispondere alle mutate condizioni ambientali. I viaggi spaziali avrebbero richiesto degli organismi temprati dalla mescolanza tra componenti biologiche e cibernetiche, e all’uomo la capacità di riprogettarsi per raggiungere i nuovi standard.
Nello studio dell’impatto che i soggiorni interplanetari potrebbero avere sul nostro materiale organico artist* e designer hanno superato i transumanisti per eccentricità ma anche, forse, per pragmatismo. Dopo i Pleasures and Terrors of Levitation, serie di scatti di Aaron Siskind che hanno stuzzicato l’immaginario degli anni ’50 con ipotesi di acrobazie a gravità zero, la body architect Lucy McRae ha cercato di testare materialmente le condizioni di possibilità di un corpo umano al di là dell’atmosfera terrestre attingendo a tutte le risorse del design e dell’architettura.
Nel 2016 ha dato alla luce The Institute of Isolation, un cortometraggio sci-fi in cui mostra il funzionamento di una serie di dispositivi da lei stessa progettati per preparare i nostri corpi a una vita extraterrestre. Questi oggetti cercano di riprodurre sulla Terra una condizione di isolamento simile a quella che l* astronaut* sperimentano nello spazio profondo, e comprendono cose come una camera anecoica, un trainer di microgravità per allenare l’essere umano a sopportare lunghi periodi in stato di levitazione e inibizione sensoriale, specifici programmi di fitness, e tute spaziali realizzate in collaborazione con costumist* della National Opera.
Sua anche Future Days spa (2015) un’installazione che si concentra su come indurre il senso di benessere senza l’uso di sostanze psicotrope. In questo caso McRae invita le persone ad introdursi in una specie di seconda pelle, una muta claustrofobica che tutto farebbe immaginare fuorché il trattamento rilassante a cui è deputata.
Un lenzuolo pressurizzato viene calato sul corpo del* malcapitat*, dopodiché l’artista attiverà il dispositivo per rimuovere l’aria e creare una condizione di vuoto totale, simile a quella che si potrebbe sperimentare su un’altra galassia. Contro ogni aspettativa chi ha partecipato all’esperienza ha riportato solo sintomi positivi, come senso di conforto e sollievo, confermando che l’isolamento può anche essere una terapia.
Pur non essendo molto diverso da quello che probabilmente farà la NASA una volta arruolat* volontar* per i suoi test sugli effetti dell’ambiente maziano, queste opere per ora sono solo speculazioni, ma danno spunti importanti per una riflessione sul processo evolutivo dell’essere umano. In fondo quanto pensi che ci vorrà prima che anche la scienza trovi il modo di rimediare a ciò che ci manca portandoci dritti verso l’era dell’evoluzione autoindotta e direzionata? E quando succederà potremo ancora parlare di essere umano nello stesso modo?
In the sky with diamonds
La nostra struttura fisica non è l’unico problema dei viaggi interplanetari, anzi, a pensarci bene l’impressione è che forse sarà più facile adattare il corpo che la mente. Trevor Paglen ha dedicato una grossa fetta della sua attività artistica al rapporto dell’umanità con lo spazio e alle dinamiche di potere che nasconde. Geografo di formazione, Paglen ha coniato il termine geografia verticale per giustificare il suo interesse anche in ciò che di solito non siamo abituati a considerare parte del nostro territorio, come il cielo e le profondità dei mari.
In collaborazione con il Nevada Museum of Art nel 2000 ha progettato Orbital Reflector, un satellite che aveva il solo obiettivo di costringerci a riflettere su tutto ciò che accade sopra le nostre teste, e su chi ha il monopolio di queste attività. Dai satelliti civili-commerciali che popolano l’esosfera dipende la maggior parte delle infrastrutture e delle operazioni che ormai consideriamo vitali, come usare internet e guardare la TV, ma molti di loro vengono utilizzati anche per gestire le operazioni militari, e questo trend non farà che aumentare.
Dal canto suo il satellite di Paglen avrebbe soltanto rilasciato una scultura gonfiabile a forma di diamante, visibile anche dalla Terra grazie alla sua superficie a specchio capace di riflettere i raggi solari. A differenza di tutti i suoi predecessori, dopo qualche mese avrebbe tolto il disturbo disintegrandosi nell’atmosfera. Una premura non necessaria, se si considera che NASA e compagnia non hanno ancora sviluppato nessun protocollo per contenere l’inquinamento prodotto dagli assetti spaziali non più in funzione, che al momento fluttuano nello spazio minacciando collisioni, oppure piovono di nuovo sulla terra o negli oceani in forma di detriti pericolosi.
Orbital Reflector avrebbe dovuto lasciare la Terra nel 2018, ma il lancio non è mai avvenuto per via dello shutdown di Trump. Oggi viene portato in mostra in giro per il mondo assieme agli altri prototipi di nonfunctional satellites che Trevor ha realizzato con il supporto di un team di ingegner* aerospazial*. Una collezione di oggetti liberi da intenti commerciali, politici e bellici, nati solo per essere contemplati e darci un’idea di quanto la specie umana ami farsi del male.
In questo senso un altro progetto interessante è The Last Pictures, concepito nel 2012 e in parte sviluppato al MIT. L’opera si ispira ad un fatto realmente accaduto negli anni ’70, quando alla NASA venne la pazza idea di lasciare una traccia dell’esistenza della specie umana anche oltre il sistema solare. A questo scopo vennero lanciate due sonde, Voyager 1 e Voyager 2, con a bordo il Golden Record, un LP di rame con incisi suoni e immagini del nostro pianeta.
I materiali furono selezionati da una commissione scientifica di alto profilo, nella speranza che un giorno venissero intercettati e decodificati da qualche forma di vita aliena. La selezione comprendeva registrazioni sonore (suoni della natura, saluti in 50 lingue e brani musicali che spaziavano dalle sonate di Bach ai canti aborigeni australiani), immagini delle più basilari attività umane (quella qui sopra mostra come si beve e si mangia), e l’immancabile discorso dell’allora presidente degli Stati Uniti.
Memore di questo evento nel novembre 2012 Paglen ha collaborato con Creative Time per lanciare in orbita il satellite per le telecomunicazioni EchoStar XVI, che si è posizionato a circa 36,000 km dalla Terra con l’intento di rimanerci anche quando la civiltà umana sarà scomparsa. Il satellite trasporta un dischetto di silicone dorato in cui l’artista ha archiviato un centinaio di fotografie esemplificative di questo momento storico, che trasformano l’originario monumento celebrativo della razza umana nel messaggio in bottiglia di una specie in estinzione.
Let it be
E’ ormai risaputo che dietro la voglia di Marte si nasconde soprattutto l’imminenza della sesta estinzione di massa. L’idea che sottende tutte le operazioni di cui sopra è quella di sfuggire ai danni che abbiamo causato qui sulla Terra prima che diventi evidente che non abbiamo tempo per rimediare. Ma i nostri goffi tentativi di evasione ricalcano una logica estrattiva e dominatrice che sappiamo non aver portato mai nulla di buono. Non sarebbe il momento di pensare a un modello migliore?
Per prevenire il ricorso a un colonialismo vecchio stile e i danni di una migrazione biocentrica il duo Nonhuman Nonsense ha messo le mani avanti presentando una dichiarazione universale dei diritti marziani alla Dutch Design Week del 2020. Non sapendo ancora quali siano gli abitant* del pianeta rosso, né se ce ne siano effettivamente, ecco che Planetary Personhood si rivolge al pianeta nella sua globalità, proponendo di abolire la distinzione tra vivente e non vivente e allargare la nozione di soggettività a tutti gli elementi che lo compongono, a cominciare dalle rocce.
La campagna è la prima ad avere un raggio interplanetario e vede nell’estensione dei diritti alla materia inanimata un modo per contrastare quel brutto vizio di considerare il cosmo come un giacimento che aspetta solo noi per essere scoperto e sfruttato.
Planetary Personhood stabilisce degli assunti fondamentali quali: Marte non è terra di nessuno, non è una tela bianca da imbrattare; Marte è un’entità autosufficiente e capace di autodeterminazione, appartiene solo a sé stesso e dovrà essere esso stesso ad avere l’ultima parola sull’assetto di eventuali colonie, così come sui tempi e modi dell’interazione con noi esseri umani. L’idea di dare alle rocce diritti civili si ispira allo storico ritrovamento del meteorite Allan Hills 84001, riconosciuto dalla comunità scientifica come prova dell’esistenza di colonie batteriche primordiali su Marte e salutato dal presidente Clinton come una sorta di primo ambasciatore del pianeta rosso.
L’opera mette in discussione quel brutto vizio che la filosofa Jane Bennet ha identificato come ‘antropocentrismo strategico’, ovvero la tendenza dell’uomo ad attribuire i propri tratti a tutto ciò che umano non è. Forse ricordandoci che anche i nostri corpi sono composti da minerali dovremmo fare meno fatica a considerare le pietre come nostri simili, ma, anche se così non fosse, davvero umanizzare le cose è l’unico modo che abbiamo per rispettarle?
Un altro progetto che ci invita a riconsiderare l’idea che gli altri corpi celesti esistano solo in funzione di fornirci un pianeta B è quello di Alexandra Daisy Ginsberg, che ha dedicato la sua tesi di dottorato a mettere in crisi il concetto squisitamente capitalista di miglioramento a tutti i costi. I suoi lavori si chiedono se cercare il meglio sia sempre necessariamente un bene e chi abbia il diritto di decidere cosa è meglio e cosa no; allo stesso tempo sottolineano quanto la risposta non sia per niente univoca e scontata, soprattutto quando si tratta di sistemi viventi.
Dopo averci ricordato gli effetti collaterali del colonialismo riportando in vita specie floreali estinte grazie alla biologia sintetica (l’opera in questione si chiama Resurrecting the Sublime ed è stata realizzata in collaborazione con Sissel Toolas), nel 2019 Alexandra ha presentato The Wilding of Mars, che propone di mandare lassù una specie che si sta rivelando molto più intelligente di noi, cioè le piante.
L’artista ha scelto 16 diversi tipi di vegetazione e batteri terrestri tra quelli più equipaggiati per adattarsi a radiazioni, temperature a picco sotto lo zero e tempeste di sabbia, e ha ricostruito in digitale il loro processo di adattamento ai parametri idrici, di temperatura e nutrienti marziani. L’idea è una contaminazione soft, costruita per seminazioni successive, nell’ottica di ampliare il range di specie via via che le condizioni si faranno più propizie.
Il tutto è presentato in forma di videoinstallazioni che simulano la crescita di questi ecosistemi a una velocità amplificata rispetto a quella di millenni che normalmente richiederebbe. L* visitator* possono osservare il silenzioso sviluppo delle nuove biosfere soltanto attraverso l’obiettivo di una telecamera, in una posizione strategica che accentua il loro status di voyeur.
Niente di diverso dal modo in cui abbiamo sempre visto Marte negli ultimi tempi, cioè attraverso le immagini trasmesse dagli schermi dei nostri dispositivi, ma più efficace per rendersi conto di quanto la vita lassù potrebbe svilupparsi tranquillamente anche senza il nostro contributo.
Hanno ispirato questo articolo:
- Manfred E. Clynes and Nathan S. Kline, Cyborgs and Space, 1960
- Francesca Ferrando, Why Space Migration Must Be Posthuman, in Schwartz, J., Milligan, T., Ethics of Space Exploration, vol. 8, Springer, 2016, pp. 137-152
- Eduardo Kac, Telepresenza e Bioarte. Interconnessioni tra conigli, umani e robot, CLUEB, 2016
- e-flux.com – Some Sketches on Vertical Geographies
- Trevor Paglen, The Last Pictures, University of California Press, 2012
- Justin McGuirk, Alex Newson, Eleanor Watson, Moving to Mars. Designing for the Red Planet, catalogo della mostra al Design Museum di Londra,18/10/2019-23/02/2020