Negli anni ’90 Aziz + Cucher lavorano insieme su una serie di immagini digitali manipolate al computer. Una di queste è Faith, Honor and Beauty (Man with computer) e rappresenta un giovane uomo nudo secondo i canoni estetici contemporanei. La pelle è glabra come un bambolotto, la muscolatura tornita e tonica, i tratti del viso irresistibili. Unico difetto: non ha gli organi genitali.
Come gli attributi di una divinità classica nella sinistra regge il suo laptop, mentre con la destra indica un punto indefinito davanti a sé, dritto verso l’avvenire; pazienza se per arrivarci ha dovuto lasciarsi indietro qualcosa. Significato: la rivoluzione informatica ci ha dato tanto, ma forse ci sta togliendo di più.
Fino all’altro ieri questo è stato il modo in cui tutt* abbiamo guardato anche alle tecnologie di comunicazione online: uno spazio di alienazione in cui collegarsi in rete significava scollegarsi dalla realtà. Una dimensione eccezionale in cui più cercavamo di accorciare le distanze, più disimparavamo a stare vicin*.
La retorica che oppone realtà e digitale ha resistito per decenni, e che tu l’abbia guardata come l’anticristo o salutata come la rivoluzione, di sicuro non hai mai messo in dubbio il primato ontologico della prima sulla seconda. Poi è arrivato il covid-19 e nulla è stato più come prima.
In questi giorni di isolamento forzato o eroicamente autoimposto, in cui tutto il mondo fuori dalla finestra sembra implodere su sé stesso ed è un incubo anche andare a fare la spesa, la rete è diventata improvvisamente rassicurante.
Adesso passi la maggior parte delle tue giornate in uno spazio digitale fatto di videoconferenze, live chat, shopping online, schermi condivisi e dirette streaming. Le comunicazioni via computer che prima accusavi di toglierci l’umanità ora sono l’unica cosa che ti fa sentire reale; i rapporti a distanza che un tempo ti sembravano aridi adesso sono il non plus ultra dell’intimità.
Kazuhiko Hachiya, Inter DisCommunication Machine, 1993
Kazuhiko Hachiya, Inter DisCommunication Machine, 1993
Kazuhiko Hachiya, Inter DisCommunication Machine, 1993
Sherrie Rabinowitz e Kit Galloway, Electronic Cafe, 1984
Sherrie Rabinowitz e Kit Galloway, Electronic Cafe, 1984
Sherrie Rabinowitz e Kit Galloway, Electronic Cafe, 1984
A suon di videochiamate la presenza sta cedendo il passo alla telepresenza, ovvero alla presenza a distanza, all’esistenza in luoghi remoti in forma di immagini virtuali o dispositivi robotici. Così, quelli che fino a ieri erano problemi solo del* ingegner* della NASA hanno iniziato a riguardare anche te.
Con la telepresenza la connessione wireless esprime tutto il suo sex appeal e le sue ambiguità offrendo alle persone la possibilità di essere in due o più luoghi contemporaneamente, e con un grado di credibilità da fare a gara con il reale.
Ma lo spazio della rete è davvero meno reale di quello in cui sei sedut*? Sei sicur* di avere tutti gli strumenti che ti servono per sopravvivere in quello che è a tutti gli effetti un nuovo ecosistema? E soprattutto: come si pone il mondo dell’arte di fronte a tutto ciò? Io me lo sto chiedendo da un po’ e qui ci sono due o tre risposte che mi sono data.
Se non vedo, non credo
Se musei e fondazioni le stanno scoprendo solo adesso, l* artist* hanno iniziato a sondare le potenzialità della comunicazione a distanza almeno un secolo fa. Dopo gli esordi di Lazlo Moholy-Nagy e dei suoi quadri al telefono nel lontano 1922, le telecomunicazioni, potenziate a dismisura dalla pervasività della rete, hanno continuato a suscitare l’interesse di più artist* di quell* che si potrebbe pensare.
Queste persone nel tempo ci hanno regalato cose come performance via satellite, sculture telematiche azionate dall’andamento dei mercati e videoconferenze turbate da cyberterroristi, spostando l’attenzione dalle modalità di trasmissione di un solo senso a quelle di un intero corpo.
Eduardo Kac, Telepresence Garment, 1995-96
Eduardo Kac, Telepresence Garment, 1995-96
Eduardo Kac, Telepresence Garment, 1995-96
Eduardo Kac, Telereporting an Unknown Space, 1996
Eduardo Kac, Telereporting an Unknown Space, 1996
Eduardo Kac, Telereporting an Unknown Space, 1996
Queste ultime ricerche in particolare devono la loro definitiva consacrazione sotto l’etichetta di Telepresence Art a Eduardo Kac. Kac nella vita non si è occupato solo di conigli transgenici ma ha coltivato anche un interesse per le tecnologie che conferiscono all’essere umano il dono dell’ubiquità. A sostegno della sua attività di ricerca l’artista ha realizzato installazioni che sviscerano le implicazioni del teletrasporto per via telematica destreggiandosi tra rischi e potenzialità della cosiddetta “ecologia di rete”.
Ornitorrinco (1989-1996) è una delle prime opere di questo tipo, e si configurava come una serie di eventi che guardavano alla telerobotica per contrastare la solitudine tipica del cyberspazio. Contro la tendenza delle nuove tecnologie dell’informazione a isolare e atomizzare le azioni in rete, opere come Ornitorrinco on the moon – un telerobot posizionato al The School of Art Institute di Chicago e controllato via videotelefono da visitator* della Kunstlerhaus di Grasz – tentavano di creare un legame tra divers* utent* che permettesse di guardare al mondo da un punto di vista diverso dal proprio.
Ancora più proattiva in questo senso è Telereporting an Unknown State (1996), un’installazione bio-telematica che ha permesso a persone di 4 città diverse di cooperare per far crescere una pianta. Chi partecipava all’esperimento doveva accedere ad un pannello di controllo online che proponeva una serie di telecamere collocate in varie città del mondo e con un semplice comando poteva decidere quando e come attivare il collegamento con un proiettore in una galleria di New Orleans.
Grazie al proiettore i raggi di luce ripresi dal dispositivo prescelto venivano convogliati su un piedistallo di legno che conteneva la terra in cui era sepolto il seme. La luce solare giunta dalla rete sarebbe stata quindi l’unica fonte di nutrimento della pianta: molto prima del coronavirus Internet si offriva già come un sistema di supporto alla vita biologica.
La causa del giardinaggio è stata sposata anche da Ken Goldberg con il suo Telegarden, un giardino coltivato da remoto tramite un braccio robotico telecomandato. Non meno accademico di Kac, Goldberg fa ricerca da anni all’università di Berkeley sulla conoscenza acquisita a distanza tramite dispositivi elettronici – disciplina passata al secolo come “telepistemologia” – analizzando la differenza che passa tra fare esperienza nello spazio fisico e in quello digitale.
Dopo anni di studi Goldberg ha rilevato che quando si tratta di conoscenza a distanza il primo problema è accertarsi che quello che hai sotto gli occhi esista davvero. Mentre in radio o in televisione quello che c’è sullo schermo è in qualche modo certificato dall’autorevolezza della società che lo trasmette, in Internet chiunque può collegarsi con una webcam e aprire una finestra su nuove realtà, che tendenzialmente è bene non accettare a scatola chiusa.
Shadowserver, un’opera che Goldberg ha realizzato con un suo studente nel 1997, ha trasformato questa metafora in realtà costruendo una scatola nera con degli oggetti chiusi all’interno. Per scoprirne il contenuto l* visitator* collegat* via web, avevano a disposizione 32 combinazioni di luci al neon da azionare soltanto per alcuni secondi.
Il sistema restituiva sui loro schermi delle immagini in bianco e nero ai limiti dell’astrattismo, che, pur confermando la presenza di un contenuto, lo rendevano comunque impossibile da decifrare. L’opera arrivava a scomodare il mito della caverna di Platone per smascherare l’ambiguità della rete: un luogo in cui il prezzo da pagare per “rendere visibile l’invisibile” è sacrificare la realtà a favore dell’immagine.
Così lontani e così vicini
Con le loro incursioni nella telerobotica Kac e Goldberg hanno mostrato anche un’altra caratteristica delle comunicazioni in rete: l’annullamento del principio di prossimità. Mentre nello spazio fisico l’importanza che dai a una cosa è direttamente proporzionale a quanto ce l’hai vicina, in quello digitale la distanza tra te e gli altri è irrilevante, almeno finché regge la connessione.
La lontananza non è più un discrimine, tutti i luoghi e le persone che conosci sono raggiungibili e irraggiungibili allo stesso modo, e ti mancano alla stessa maniera. La rete ti permette di stare vicino a chiunque, anche se solo in forma di immagine e suono, ma il concetto di mettersi in contatto mai come oggi suona come un paradosso, perché il tatto è proprio la prima cosa che viene a mancare.
Paul Sermon ha tradotto questa carenza cronica nella serie Telematic Dreaming (1992) che gli è valsa negli anni numerosi premi. L’installazione ricreava in luoghi distanti due ambienti speculari con un letto o un divano ciascuno; le persone potevano condividere la stessa intimità in remoto proiettando la propria immagine un* sulle lenzuola dell’altr*. Romantico e frustrante, questo sogno telematico sottolinea che, quando si tratta di annullare le distanze, la connessione psicologica è ancora più efficace di quella in rete.
Entrare in uno spazio digitale implica sempre lasciarsi dietro qualcosa, e spesso riduce lo spettro percettivo ad un senso soltanto. Partecipare a una videochat o a una videoconferenza è un’esperienza in qualche modo totalizzante, significa entrare in uno spazio di pura comunicazione che ci risucchia al suo interno alienandoci dall’ambiente che abbiamo intorno.
Nel 2003 il duo composto da James Auger e Jimmy Loizeau ha progettato un dispositivo che denunciava questo aspetto trasformando una telefonata in un’esperienza letteralmente immersiva. Iso-phonic si presentava sotto forma di un casco integrale dal design vagamente anni ’60, da provare immergendosi in una vasca di galleggiamento. Mentre la testa di chi lo indossava era bloccata fuori dall’acqua, il corpo restava sotto la superficie scongiurando qualsiasi interferenza sensoriale che potesse turbare la conversazione.
Nonostante la totale assenza di praticità, l’idea del casco integrale ha affascinato il duo così tanto da riproporla anche in Interstitial Space Helmet, un’opera che riflette sul modo in cui curiamo la nostra presenza sul web.
L’ISH è composto da due valve tagliate a misura, dotate di un sistema audio in uscita e in entrata, un microfono e uno schermo LCD. Lo schermo è rivolto sia verso l’esterno che verso l’interno, fissato a una ventina di centimetri dagli occhi di chi lo utilizza. All’interno è possibile vivere un’esperienza radicale di introspezione, al sicuro da qualsiasi incontro indesiderato. All’esterno si può comunque vedere chi indossa il casco, ma solo in maniera indiretta, mediata dallo schermo.
Chius* in questo narcisistico confronto con il proprio io digitale l* utent* può scegliere di mostrarsi così com’è, di editare la propria immagine, oppure di spegnere tutto e non mostrarsi affatto. L’elmetto al momento è solo un prototipo tutto da sperimentare, ma ci dice già una cosa fondamentale: la comunicazione a distanza ci metterà un po’ a diventare un processo naturale.
Alla ricerca del corpo perduto
Il problema di ridare naturalezza alle telecomunicazioni sta particolarmente a cuore a Eric Paulos, che alla sua ricerca aggiunge una marcia in più: sostenitore sfegatato dell’accesso globale alla tele-incarnazione, l’artista è convinto che comunicare a distanza possa essere un’esperienza che coinvolge non solo la vista, ma il corpo intero.
Le sue opere consistono in dispositivi capaci di rendere possibile quella che lui chiama PRoPs, Personal Roving Presence (che tradotta suona circa “presenza personale itinerante”), ovvero l’incarnazione in uno spazio remoto mediante dispositivi comandati a distanza.
Ubiquitous Tele-embodiment via Blimps ad esempio consisteva in un piccolo dirigibile telerobotico a propulsione autonoma, dotato di telecamera, che combatteva il senso di artificiosità delle videochiamate offrendo all* utent* la possibilità di perlustrare spazi remoti in autonomia.
Questa sorta di cuscino volante sopperiva alle carenze dei sistemi di telecomunicazione – prima tra tutte l’essere costrett* a restare immobil* davanti allo schermo durante una chiamata – seguendo chi c’era dall’altra parte del video in tutte le sue attività.
Per chi soffrisse di mal di mare l’artista ha sperimentato anche PRoPs montati su ruote, composti da un’asta verticale equipaggiata con un piccolo schermo, altoparlanti e microfono, attraverso i quali mostrare la propria immagine, deambulare nello spazio remoto e sentirne distintamente rumore e suoni, interagendo in una maniera più disinvolta con l* destinatar* della chiamata.
Negli stessi anni la via della reincarnazione l’aveva intrapresa anche Eduardo Kac con Rara Avis, un’opera che rispondeva a una domanda che ci stiamo facendo tutt*: cosa succederebbe se invece che in un congegno robotico ci incarnassimo in un uccello tropicale?
Questa “esperienza extracorporea non-metafisica” (cit.) è diventata realtà grazie a un’installazione composta da una gabbia con 30 uccelli tropicali, un macaco robot telecomandato, con due videocamere al posto degli occhi, e un casco di realtà virtuale. Per vedere il mondo dal punto di vista dell’animale, cioè dalle sbarre della sua prigione, l* visitator* potevano sia indossare il casco in loco che collegarsi all’opera da remoto.
Dalla loro postazione le persone potevano inviare anche dei comandi al pennuto per fargli emettere versi a sorpresa. Entrare in questo corpo cibernetico ha permesso ai fortunat* di vedersi dall’esterno con gli occhi dell’animale, provando l’ebbrezza di un coinquilinaggio su scala anatomica.
Arrivat* a questo punto, se possiamo reincarnarci in un robot e in un uccello perché non provare a farlo anche nel corpo di un’altra persona? La risposta ce l’ha data Rafael Lozano-Hemmer, talmente convinto di questa strada da aver fondato una società che si chiama Transition State Theory. Nelle sue installazioni il mix tra realtà virtuale, performance art e telepresenza ha generato esperienze come The Trace (1995), che offriva a due sconosciut* la possibilità di “teleincarnarsi” un* nell’altr*, ovvero di occupare lo stesso posto in uno spazio digitale.
Per realizzare questo gioco di prestigio erano sufficienti due postazioni interattive connesse tra loro tramite linea telefonica, composte da una stanza buia, uno schermo di retroproiezione sul soffitto, lampade robotiche, altoparlanti e un sistema di tracciamento a ultrasuoni.
Appena un* visitator* metteva piede in uno di questi ambienti, un sensore wireless tracciava in tempo reale la sua posizione. All’interno le lampade proiettavano luci di due colori: il blu seguiva i movimenti della persona lì presente, il bianco quelli di chi era entrato nell’altra stanza. Quando i due raggi si incontravano significava che i due si trovavano esattamente nello stesso punto.
Anche i suoni davano coordinate spaziali: se un* del** due partecipant* si muoveva verso destra, l* altr* avrebbe ricevuto un suono provenire da quella direzione e così via. Quando si incontravano il suono si faceva più intenso e lo schermo sul soffitto traduceva l’avvenuta tele-incarnazione in una infiorescenza di elementi grafici tridimensionali.
Alla luce di queste ricerche gli anni Novanta appaiono improvvisamente utili non solo per averci regalato il brit pop, la Playstation e la Guerra del Golfo ma anche una precoce chiave di lettura del nostro rapporto con lo spazio digitale. E se come sembra la telepresenza diventerà una componente fondamentale di quella che chiamiamo “nuova normalità”, forse averci pensato per tempo non è stato poi così male.
Hanno ispirato questo articolo:
- Eduardo Kac, Telepresenza e Bio Arte. Interconnessioni in rete tra umani, conigli e robot, CLUEB 2016
- Stephen Wilson, Information Arts. Intersections of art, science and technology, MIT Press 2002
- Ken Goldberg (a cura di), The Robot in the Garden. Telerobotics and Telepistemology in the Age of the Internet, MIT Press 2001
- ekac.org