Metà umano e metà felino, portatrice di enigmi nella mitologia greca, guardiana della vita ultraterrena dei potenti in quella egizia, la sfinge è amata profondamente dalla psicanalisi e dai Surrealisti uomini. Breton, Ernst, Dalì ne hanno fatto l’incarnazione della duplice natura della femme fatale. Da un lato seduttrice, dall’altro portatrice di morte e devastazione, è la figura perfetta per incarnare il complesso di inferiorità patriarcale dei primi del Novecento.
Sotto il pennello di Leonor Fini la sfinge diventa qualcosa di diverso: una creatura che incarna il potere rigenerativo, una custode della vita; accucciata sulla soglia tra realtà e immaginazione, veglia e inconscio, si fa simbolo dell’ambiguità se non di tutte le donne, sicuramente della sua. Ma vediamo come tutto questo è stato possibile.
Dall’Argentina con furore
Siamo nel 1907 e a Buenos Aires Erminio Fini, proprietario terriero di origini italiane, e la moglie Malvina Braun, donna coltissima metà dalmata e metà slava, decidono di avere un figlio. Nasce Leonor Fini, una bambina che della sua terra natale vedrà ben poco. Due anni dopo la coppia si separa e la madre la porta con sé a Trieste. In linea con la sua indole violenta il padre non la prende molto bene e tenta più volte di rapirla, ma Malvina lo raggira vestendola da maschio. Leggenda vuole che sia stata questa abitudine ad iniziare Leonor a quella che oggi alcuni chiamerebbero teoria gender.
La metamorfosi e l’identità fluida infatti sono una costante sia nella sua vita che nella sua attività artistica, iniziata precocemente tra il Caffè Garibaldi e il salotto dello zio Ernesto Braun. Avvocato progressista e alto borghese, Ernesto non solo possiede una biblioteca da capogiro, ma frequenta anche molti dei letterati che abbiamo studiato a scuola: James Joyce, Umberto Saba, Italo Svevo. Dopo essersi fatta espellere da tutti gli istituti della città, Leonor inizia a disegnare alternando ritratti di intellettuali a visite all’obitorio, per studiare dal vero l’anatomia umana. Delle due pratiche è la prima che le apre le porte del mondo dell’arte, e verso la fine degli anni ‘20 una famiglia altolocata la chiama a Milano per farsi fare un ritratto. Costretta a un soggiorno nel capoluogo lombardo Leonor si avvicina a Novecento italiano e in particolare ad Achille Funi, del quale diventa allieva e amante.
Leonor Fini nello studio di Achille Funi, 1928 circa
Leonor Fini nello studio di Achille Funi, 1928 circa
Leonor Fini nello studio di Achille Funi, 1928 circa
Leonor Fini, Ritratto di Italo Svevo, 1928
Leonor Fini, Ritratto di Italo Svevo, 1928
Leonor Fini, Ritratto di Italo Svevo, 1928
Nelle sue prime tele c’è tutto il ritorno all’ordine di Novecento, ma presto verrà rimasticato in uno stile più personale. Dopo un breve periodo passato a Roma, tra ritratti ad aristocratici e passeggiate con Giorgio De Chirico, diventa sempre più chiaro qual è il suo più grande talento dopo la pittura: stare sempre dove succedono le cose. Il cantore delle piazze d’Italia le consiglia di trasferirsi a Parigi per far fruttare al meglio queste qualità.
I ruggenti anni ‘30
E’ il 1931 e Parigi è la capitale assoluta dell’arte d’avanguardia; tutti quelli che contano sono a Parigi, e tutti quelli che vogliono contare stanno cercando di andarci. Fini ci approda sull’onda della pittura Metafisica e si arena sulle coste del Surrealismo. Sedotta dalla natura antiaccademica del movimento, ma disgustata dal sessismo dei suoi esponenti, si scontra con Breton come da copione, rifiutando di conformarsi alla sua idea di cosa dovrebbe essere una donna. Espone comunque con i surrealisti in diverse occasioni, ma senza aderire mai ufficialmente al gruppo. L’Arma bianca (1936), la tela che presenta all’Esposizione internazionale surrealista di Londra, mostra due donne con stivalata bondage, una è a carponi mentre l’altra la domina con in mano un oggetto da cui cola del liquido bianco. Un’opera capace di far arrossire anche il più escatologico dei surrealisti.
Nonostante gli accostamenti improbabili e le allusioni sessuali siano in linea con l’estetica surrealista, Fini si rende conto che sono molte di più le porte che deve abbattere rispetto ai suoi colleghi maschi. A vent’anni capisce che non può esserci libertà di ricerca in un gruppo connotato al maschile e che si definisce per opposizione, e decide che lo stato di outsider è l’unico che le si addice. Alla stessa conclusione erano arrivate la maggior parte delle altre artiste affini al movimento: Dora Maar, Lee Miller, Meret Oppenheim, Frida Kahlo… Leonor le conosce tutte.
Si lega intimamente a Leonora Carrington e Dorothea Tanning, con la quale ha anche una breve relazione, ma più interessante è quella che avrà con il futuro marito di Tanning, Max Ernst. Avvinto dal suo talento Ernst condivide con lei i suoi studi di alchimia, magia, esoterismo, conia l’epiteto di “furia italiana” e convince Peggy Guggenheim a farla esporre a New York. Dopo una mostra alla Galleria Julien Levy (con introduzione a catalogo dell’amico De Chirico) e la leggendaria Fantastic Art Dada Surrealism al MOMA, la sua arte non ha più confini.
Leonor Fini, L’Arma bianca, 1936
Leonor Fini, L’Arma bianca, 1936
Leonor Fini, L’Arma bianca, 1936
Leonor Fini, Sphinx, 1950
Leonor Fini, Sphinx, 1950
Leonor Fini, Sphinx, 1950
A Parigi Leonor Fini vive l’arte con la stessa libertà della sua vita erotica: si cimenta in tutti gli ambiti creativi che le capitano a tiro: illustra “I Fiori del Male” di Baudelaire, disegna costumi per balletti e opere teatrali; progetta la bottiglietta di profumo più famosa al mondo (Shocking, di Elsa Schiapparelli nda) e i costumi del film 8½ di Fellini. In pittura sperimenta con altrettanta foga e fecondità: ibrida culture e stili, aggiunge atmosfere metafisiche, dipinge amazzoni, enigmi, metamorfosi; tra una citazione arcaizzante e l’altra fonde elementi umani e non umani come fossero la stessa cosa.
Nelle sue tele ricorrono figure di animali: sfingi, gatti e civette fanno a gara con le scimmie nei quadri di Frida Kahlo. Nella mitologia egizia e occidentale queste creature hanno delle qualità totemiche, si trovano al confine tra il mondo sensibile e l’ignoto, sono in grado di accedere a un livello di coscienza che agli umani è precluso; l’artista stabilisce con loro una specie di transfert delle sue ossessioni, e dipingendole cerca di appropriarsi del loro potere. Di quello più facilmente reperibile, i gatti, si circonda per tutta la vita.
La presenza umana invece si compone di un’unica figura: la sua. Come nelle tante fotografie che la ritraggono gli occhi sono quello che si nota prima: il suo sguardo da felino che buca la tela, la pellicola, qualsiasi supporto lo stia immortalando. Ti si pianta addosso come un chiodo, e forse ti accusa, forse ti chiama in causa, forse semplicemente ti trapassa da parte a parte. Tutte le donne che dipinge hanno quello sguardo, tutte le donne che dipinge sono lei.
Fabrizio Clerici, Leonor Fini a Torre San Lorenzo – con Autoritratto con Kot e Sergio, 1952
Fabrizio Clerici, Leonor Fini a Torre San Lorenzo – con Autoritratto con Kot e Sergio, 1952
Fabrizio Clerici, Leonor Fini a Torre San Lorenzo – con Autoritratto con Kot e Sergio, 1952
Leonor Fini, Donna seduta su un uomo nudo, 1942
Leonor Fini, Donna seduta su un uomo nudo, 1942
Leonor Fini, Donna seduta su un uomo nudo, 1942
Leonor Fini, La pastorella delle Sfingi, 1941
Leonor Fini, La pastorella delle Sfingi, 1941
Leonor Fini, La pastorella delle Sfingi, 1941
In La Pastorella delle Sfingi (1941) la pastorella è una figura stante con una corazza di metallo sul pube. Permanente perfetta, si staglia al centro di un deserto, appoggiata a un bastone, una specie di San Giovanni Battista sulla via dell’ascetismo. Leonor Fini è la condottiera di un gregge di sfingi che stanno accoccolate ai suoi piedi su un terreno brullo, coperto di fiori recisi, ossa spezzate e lische di pesce. Tutte sono fatte a sua immagine e somiglianza, la maggior parte guarda fuori dal quadro, solo quella al centro si accorge di noi; il cielo è scuro e non promette nulla di buono.
Questa immagine ribalta completamente l’iconografia dell’eroismo maschile, il guerriero è una donna che si erge sui resti di un mondo consumato da altri. Nonostante continuasse a non sopportare il carattere della sua autrice, Peggy Guggenheim espone quest’opera nella mostra che cura durante l’esilio a New York. Exhibition of 31 Women è un evento senza precedenti: è la prima volta nella storia che un’istituzione ospita una mostra dedicata alle donne, intese non come soggetto, ma come creatrici delle opere. La cosa non si ripeterà a breve.
Se verrà la guerra
Guerriere, creatrici, visionarie, libere di scegliersi una forma in spregio agli stereotipi che altri hanno scelto per loro, queste sono le protagoniste dei nuovi quadri di Leonor Fini. Con opere come Donna seduta su un uomo nudo (1942) Fini cerca sempre più consapevolmente di produrre qualcosa che non possa in nessun modo essere scambiato per un’opera dei suoi colleghi maschi. Il quadro richiama di nuovo un’iconografia biblica, quella della Creazione di Eva, solo che qui invece di spuntare da una costola dell’uomo addormentato, la donna gli sta seduta sopra. Se per vegliarlo o dominarlo sta a noi stabilirlo.
Nel frattempo scoppia la guerra e Parigi viene occupata dalle truppe naziste; Ernst viene deportato, Carrington si ricovera in manicomio e Fini decide di partire per Montecarlo. Qui rimane per due anni e mezzo e incontra due persone che saranno il nucleo più longevo della cerchia di amici-amanti che – in barba a qualsiasi famiglia tradizionale – si sta iniziando a costruire: il console all’ambasciata Stanislao Lepri e il regista Nico Papatakis. A loro più tardi si aggiungerà anche uno scrittore polacco, Constantin Jelenski, che Fini amerà non meno degli altri due. I loro volti compaiono accanto al suo nelle opere di questo periodo, in cui Fini continua a sperimentare regalando alla storia dell’arte le prime iconografie della famiglia queer.
Leonor Fini, Ritratto di Nico (Montecarlo), 1942
Leonor Fini, Ritratto di Nico (Montecarlo), 1942
Leonor Fini, Ritratto di Nico (Montecarlo), 1942
Leonor Fini, Alcova, 1941
Leonor Fini, Alcova, 1941
Leonor Fini, Alcova, 1941
Ritratto di Nico, Montecarlo (1942) e Alcova (1941) ci dicono quello che pensa Leonor Fini del dibattito sul male gaze, decenni prima che prenda piede. Nella prima il corpo del suo amante è offerto allo sguardo completamente nudo, sdraiato su un lembo di terra brulla, foglie secche e frammenti di quella che sembra una cornice antica. Una luce calda e sensuale gli avvolge la pelle, la sua posizione è languida, gli occhi sono chiusi. Come le centinaia di Veneri che l’hanno preceduto, si abbandona a chi lo guarda dicendogli di fare di lui ciò che vuole. Alcova invece è un boudoir che puzza di chiuso, più simile all’Olympia di Manet che a una divinità; in primo piano c’è un letto sfatto incorniciato da tendaggi, le lenzuola bianchissime abbracciano il corpo di Papatakis. L’artista è in piedi dietro di lui seminuda eccetto un lenzuolo usato per coprirsi. Nessuno dei due ha un genere riconoscibile, ma se fatichiamo a collocarli in un binarismo che puzza di morte il problema è solo nostro.
Opere come queste non propongono più un sovvertimento dei ruoli, ma la loro fluidità. Il maschio è in metamorfosi, in discussione, in déshabillé. Si mostra libero di non dichiarare la propria sessualità, libero di non corrispondere agli stereotipi gonfiati dai regimi e dalla cultura patriarcale. Leonor Fini ci parla da un mondo in dissoluzione e usa tutta la sua carica sciamanica per farci intravedere ciò che potremmo creare sulle sue ceneri. Del suo stile lei stessa dice:
“sperimento un mondo erotico dove non c’è contrasto, non c’è ostilità, dove tutto si mescola insieme (…) mi piace sentirmi in uno stato di metamorfosi come certi animali e certi tipi di piante.”
E proprio il risultato di una metamorfosi sembra essere il soggetto di Le bout du monde/ Il confine del mondo che nelle due versioni del ‘48 e del ‘53 mostra una donna che emerge da un acquitrino. Come sempre è un autoritratto e come sempre ci guarda dritto in faccia.
La sua figura si staglia come un busto classico contro un cielo apocalittico. Sul pelo dell’acqua affiorano dei crani, non si sa se umani o animali, che come lei ci tengono le pupille puntate addosso. In primo piano galleggiano rami e foglie secche, in un’atmosfera pesante e sospesa. Più che una bagnante, sembra il germoglio di una nuova specie nata dalle scorie, sdoppiata dal riflesso nella palude. Dopo la guerra Leonor Fini si rimette al mondo da sola, o, forse, mette al mondo un futuro con al centro una donna che accetta di corrispondere soltanto a sé stessa.
Dopoguerra e altre storie
Il periodo post-bellico per Leonor Fini è tutto un brulicare di commissioni e vita mondana. La parte che preferisce dei balli e delle feste a cui prende parte è quella di mettersi in maschera: si cuce costumi fatti di piume e pelo animale, paillettes e lustrini, con cui scioccare la Parigi liberata e trasformarsi in civetta, gatto, volpe. Tra gli anni ’50 e ’60 sperimenta il cosiddetto “periodo minerale” della sua pittura: il colore è dato per incrostazioni e spugnature e i soggetti sono a metà tra un sabba e i balli in maschera dell’alta società veneziana del Settecento, ma ritratti in uno stile che riporta al mondo sottomarino. Li dipinge a Nonza, in Corsica, sulla cima di una scogliera, in un monastero in rovina che ha occupato per passarci le estati con la sua famiglia di gatti e amanti. Qui, tra performance e progetti artistici che gli abitanti del paese scambiano per satanismo, nascono opere come La Cerimonia (1960), una sinistra riunione tra personaggi mascherati, un mix di civette e fantocci antropomorfi, e un gruppo di gatti miagolanti ai loro piedi. La pittura, data per spugnature e incrostazioni, ricorda le superfici scabre degli scogli dell’isola.
Nella torre – Autoritratto con Constantin Jelenski (1952) mostra un nuovo volto del potere femminile, più come guida che come strumento di dominio. Con il rigore di un Masaccio, Fini ritrae sé stessa e l’amante in procinto di varcare una soglia; lei è vestita di nero, lui ha addosso soltanto un mantello rosso, come un novizio durante un rito di iniziazione. In La guardiana delle Fenici (1954) le lezioni di alchimia di Ernst tornano utili, e la strega si fa sciamana in un apparato figurativo che Jodorovsky avrebbe invidiato.
Leonor Fini, La guardiana delle Fenici, 1954
Leonor Fini, La guardiana delle Fenici, 1954
Leonor Fini, La guardiana delle Fenici, 1954
Negli anni ’70 queste atmosfere vengono spazzate via da una tavolozza luminosissima, quasi eterea. È quella de Le Bagnanti (1968), in cui le bambole di porcellana di John Everett Millais sono degli androgini che galleggiano in un liquido che è amniotico più che mortale. Il punto più alto di questa produzione lo tocca la doppietta La lezione di paleontologia (1972) e La lezione di botanica (1974) che indaga la sessualità femminile con un approccio quasi trattatistico.
Queste due tele si propongono come speculazioni filosofiche sui concetti di genere, sessualità e desiderio, e come tali restano per lo più incomprensibili. Nella Lezione di paleontologia c’è una sorta di white cube in cui due donne osservano il modello di un bacino come fossero impegnate in una lezione di anatomia. Quella di destra è ingioiellata come un’odalisca, il suo corpo ha una linea Art Nouveau. L’altra è una bambina girata di spalle, con un enorme cappello a fiori stile Pollyanna.
Nella Lezione di botanica l’impianto è simile ma la figura di destra ha addosso solo un fermaglio di perle, e ha perso qualsiasi connotato che possa ascriverla a un genere sessuale. La bambina invece è una donna adulta, indossa un corpetto metallizzato e delle calze a rete. Le ossa del bacino si sono trasformate in gigantesco fiore con connotazioni erotiche. Un delizioso anticipo della queer ecology che ancora oggi digeriamo a fatica. Nella prefazione di “Le livre de Leonor Fini”, una biografia pubblicata nel ’75, l’artista spiega il modus operandi alla base del volume, ma che potrebbe valere tranquillamente anche per tutta la sua opera:
“dipingo le immagini che non esistono e che vorrei vedere. (…) voglio vedere le cose che amo e le cose che dipingo una accanto all’altra. L’immaginazione si nutre di immagini strada facendo e qui ci sono alcuni itinerari della mia immaginazione.”
Leonor Fini, La lezione di paleontologia, 1972
Leonor Fini, La lezione di paleontologia, 1972
Leonor Fini, La lezione di paleontologia, 1972
Leonor Fini, La lezione di botanica, 1974
Leonor Fini, La lezione di botanica, 1974
Leonor Fini, La lezione di botanica, 1974
Umano, abumano, postumano
Opere come Lezione di botanica, ma anche del periodo precedente, non sfuggono all’attenzione delle femministe della prima ondata, impegnate in una rivalutazione del Surrealismo e dei suoi principi. Ma Leonor Fini, allergica a qualsiasi etichetta, rifiuta di aderire anche a questo, di movimento. Coerentemente con questa presa di posizione negli ultimi decenni della sua vita partecipa a mostre di ogni tipo, tranne a quelle dedicate alle artiste donne. Tra retrospettive ai quattro angoli del globo e quotazioni alle stelle viene fermata solo dalla polmonite, che la spegne a Parigi, a 89 anni, nel 1996.
A differenza di molte femministe liberali, Fini considerava la lotta per i diritti portata avanti nella cornice del paradigma umanistico poco più che una rincorsa ai rappresentanti di una civiltà in via d’estinzione. Quando le chiedevano di definirsi, lei rispondeva di considerarla abumana: una parola che definisce una forma incompiuta, uno stato di perenne attraversamento di soglie.
Abumano è chi è liber* dall’umano, chi spezza la dicotomia cartesiana posizionandosi al confine, uno spazio indefinito che conserva ancora tutte le possibilità. Da qui provengono le identità polimorfe che popolano i suoi quadri, che superano la forma umana e incorporano l’animale, il vegetale, il minerale come diversi aspetti di una materia sola. Nel corso della sua vita Fini è passata da essere outsider dell’arte, ad outsider dell’intera civiltà umanistica occidentale.
Con le sue ceneri ancora calde una critica tutta al maschile ci ha messo poco a condannarla all’oblio più totale. Alla faccia di decenni di oscurantismo Fini è rimasta una visionaria, anticipatrice di temi di cui mai come oggi sentiamo l’urgenza. Mi piacerebbe dire che è per questo che finalmente abbiamo ricominciato a parlarne ma purtroppo non è così. Lei che non ha mai voluto essere considerata in quanto donna, ma semplicemente come artista, cosa avrebbe detto della sua riscoperta all’insegna del collezionismo dell’arte al femminile?
Not to be missed se vuoi approfondire:
- Fini L., Alvarez J., Le Livre de Leonor Fini. Lausanne: La Guilde du Livre, 1975
- Webb P., Sphinx, the Life and Art of Leonor Fini, New York and London, 2009
- Webb P., Leonor Fini Catalogue Raisonne of the Oil Paintings, 2 volumi, Zurich, Scheidegger & Spiess, 2021
Leonor Fini, Le Bagnanti, 1968
Leonor Fini, Le Bagnanti, 1968
Leonor Fini, Le Bagnanti, 1968
Leonor Fini, Sphinx Regina, 1943
Leonor Fini, Sphinx Regina, 1943
Leonor Fini, Sphinx Regina, 1943
Leonor Fini, Ramo osseo, 1943
Leonor Fini, Ramo osseo, 1943
Leonor Fini, Ramo osseo, 1943