Questa pazza estate 2024 oltre alle temperature più alte di sempre ha portato un altro fenomeno anomalo sulla nostra penisola: una epidemia di mostre di Louise Bourgeois. In data odierna ne contiamo ben tre: una a Roma, alla Galleria Borghese, una al Museo del Novecento + Museo degli Innocenti a Firenze e una allo Studio Trisorio di Napoli. Visto che le ragioni di tale concomitanza sembrano insondabili, accontentiamoci di capire chi era questa artista e perché, pur essendo donna, oggi è così riconosciuta.
Art is a way to Survive
I rapporti difficili con il padre iniziano a Parigi, quando, la notte di Natale del 1911, nasce femmina e non maschio. Louis Bourgeois e Josephine Fauriaux hanno una bottega di restauro di arazzi medievali e rinascimentali, e la piccola Louise trova comunque il modo di rendersi utile lavando tessuti, cucendo e ridisegnando le scene danneggiate. Tre anni più tardi il padre parte per la guerra e com’era prevedibile viene ferito. Dopo una straziante ricerca da un ospedale all’altro, lei e la madre riescono finalmente a riportarlo a casa, ma lui tornerà profondamente cambiato, e profondamente libertino. Al suo fianco la bambina passa suo malgrado dall’esperienza degli ospedali a quella dei bordelli.
Le cose si complicano ulteriormente quando la madre si ammala di influenza spagnola e poi di enfisema polmonare, un male da cui non si riprenderà mai del tutto. Louise si trova a dover provvedere alle sue cure mentre il contributo del padre sarà tradire la moglie anche con l’insegnante di inglese che avevano preso in casa. Di queste tre croci, sopportate tutte in dignitoso silenzio, sarà l’enfisema a portare Josephine alla morte, nel 1932, un evento che lascia Louise così sola da tentare il suicidio.
Nonostante tutto, gli insegnamenti ricevuti le permettono di iscriversi alla Sorbona, dove presto si rende conto che per espiare un’infanzia disfunzionale l’arte funziona assai meglio della matematica. Inizia così a frequentare corsi di pittura e storia dell’arte all’École des Beaux-Arts e all’ École du Louvre, che a quel tempo significava entrare in contatto con persone come Fernand Léger o lo storico dell’arte americano Robert Goldwater, che poi diventerà suo marito. Non c’è da stupirsi che Louise nei suoi scritti celebri sempre l’arte come un’ancora di salvezza, perché è proprio l’arte ad allontanarla dalla sua famiglia, sia in senso psicologico che geografico.
Louise Bourgeois, Femme-maison, 1946-1947
Louise Bourgeois, Femme-maison, 1946-1947
Louise Bourgeois, Femme-maison, 1946-1947
Louise Bourgeois con le sue sculture sul tetto del suo appartamento di New York, 1944
Louise Bourgeois con le sue sculture sul tetto del suo appartamento di New York, 1944
Louise Bourgeois con le sue sculture sul tetto del suo appartamento di New York, 1944
Louise Bourgeois, One and Others, 1955
Louise Bourgeois, One and Others, 1955
Louise Bourgeois, One and Others, 1955
New York, New York
Nel 1938 i due sposi si stabiliscono nella Grande mela, dove Bourgeois è attirata come una falena dall’Espressionismo astratto di Newmann, Pollock & co, pur essendo già chiaro per tutti che la sua cifra vincente non è la pittura. Finalmente al sicuro in quella che è ormai la capitale dell’arte internazionale, a New York si accompagna ad altri immigrati come Duchamp, Mirò e Le Corbusier, ma senza mai aderire completamente a nessun movimento.
Nel ’45 esordisce con la sua prima mostra di quadri alla galleria Bertha Schaefer, partecipa a due collettive con gli espressionisti astratti e due anni dopo pubblica un album di poesie illustrate con una serie di incisioni “He disappeared in complete silence”, tra cui spicca Femme Maison, poi tradotta anche in pittura: una figura femminile completamente nuda con una casa di legno che le intrappola la testa. Quest’opera è una finestra sul futuro dell’arte di Louise Bourgeois, che sarà un costante tentativo di dare forma ai suoi traumi attraverso due elementi in particolare: il corpo e la casa.
Un processo molto più efficace con il medium della scultura, di cui Léger le aveva già mostrato le potenzialità. Louise capisce presto che trasportare il suo disagio in un materiale le permette di manipolarlo, riconfigurarlo, e partorirlo di nuovo come finalmente altro da sé. Trasformato in opera il ricordo diventa finalmente un oggetto estraneo, da guardare dall’esterno, non più capace di nuocere.
Nel 1949 Louise espone alla Peridot Gallery 17 silhouette di legno Seventeen Standing Figures, minimaliste ma vagamente antropomorfe, disposte una vicino all’altra come per una chiacchierata. Queste figure sprigionano nelle loro forme astratte la potenza simbolica dei totem, ma a fatti esorcizzano la nostalgia delle persone care che l’artista ha lasciato a Parigi.
Psicanalisi ed esorcismi
A proposito di persone lasciate a Parigi, nel 1951 viene a mancare anche suo padre, cosa che in Bourgeois risveglia un disturbo depressivo latente che la allontana dalle mostre (e quindi dal mercato) fino agli anni Sessanta. In questo periodo però non smette mai di lavorare: intraprende un febbrile processo di sperimentazione, nonché di psicanalisi. Legge testi di letteratura scientifica, trascrive sogni, riflessioni, i progressi che si vede fare. Libera dal giogo del profitto inizia ad usare gesso, marmo, cera, caucciù, latex, tessuti di scarto e altre sostanze a buon mercato per trasformarle in sculture che nessuno avrebbe mai osato definire tali.
Louise Bourgeois, Art Is a Guaranty of Sanity, no. 9 of 9, from the series, What Is the Shape of This Problem, 1999
Louise Bourgeois, Art Is a Guaranty of Sanity, no. 9 of 9, from the series, What Is the Shape of This Problem, 1999
Louise Bourgeois, Art Is a Guaranty of Sanity, no. 9 of 9, from the series, What Is the Shape of This Problem, 1999
Louise Bourgeois, Fillette, 1968
Louise Bourgeois, Fillette, 1968
Louise Bourgeois, Fillette, 1968
Cosa significasse per lei essere un’artista ce l’ha scritto lei stessa di sua iniziativa: “L’arte è garanzia di salute mentale”, è la rielaborazione di un trauma. Devi raccontare la tua storia per dimenticare la tua storia. E, come sempre, il luogo di questo transfert è il corpo. Da qui la sua costante presenza nelle sue opere: intero, smembrato, violato, mutilato il corpo racconta quello che la psiche nasconde, ma non più nella maniera seducente dei Surrealisti. Benvenut* nell’uncanny, un elemento di cui l’arte contemporanea non potrà più fare a meno.
In quest’ottica Bourgeois ci lascia opere come i Lair (1960-64) conformazioni nidiformi sospese al soffitto come le ben più leggiadre sculture di Calder, e Fillette (ragazzina) (1968) un organo genitale appeso per un gancio di ferro come un quarto di bue, con un’anima in gesso ricoperta di latex. A seconda del punto di osservazione questo oggetto può ricordare dei testicoli, dei seni, un pene in erezione, una piccola figura femminile abbozzata, o tutte queste cose insieme. La fluidità di genere si rivela presto una delle cifre più potenti della scultura di Louise Bourgeois.
Ma tutta questa esuberanza erotica si nutre anche di una solida tradizione. Già titolare di una cattedra al Brooklyn College e in altre istituzioni pubbliche e private, tra il 1967 e il 1972 Louise vince una borsa di studio per affinare le sue arti plastiche nelle cave di marmo di Pietrasanta e Carrara – quelle di Michelangelo, per intenderci. Curioso come lo stesso sito abbia foraggiato sia il cultore della perfezione del corpo sia una delle sue massime dissacratrici.
Ma che l’arte di Louise sia impossibile da legare a qualsiasi etichetta lo riconferma un’opera come La Distruzione del padre (1974): dentro una struttura che sembra il boccascena di un teatro l’artista allestisce un banchetto a base di pezzi di carne macellata, trasfigurando una vita di paura e rabbia verso chi l’ha generata in un atto di cannibalismo. I brandelli di pollo e d’agnello sono immersi del gesso e poi trasportati in latex; intorno alla tavola e sul soffitto sporgono delle escrescenze tondeggianti simili a seni, e il tutto è bagnato da una luce che Dario Argento apprezzerebbe moltissimo. In questo piccolo ambiente c’è tutto il macabro degli ospedali di guerra, la depravazione dei bordelli, il tedio delle cene in famiglia e anche le installazioni degli anni ’90 che la renderanno celebre.
Louise Bourgeois, The destruction of the father, 1974
Louise Bourgeois, The destruction of the father, 1974
Louise Bourgeois, The destruction of the father, 1974
Louise Bourgeois, Janus Fleuri, 1968
Louise Bourgeois, Janus Fleuri, 1968
Louise Bourgeois, Janus Fleuri, 1968
Le protuberanze qui sperimentate ritorneranno prepotenti nella maggior parte delle sue sculture a venire, come in She-fox (1985) una creatura senza testa, accucciata sulle zampe posteriori, che espone un grappolo di mammelle sul petto e uno squarcio sulla gola. Ieratica e ambigua come un idolo antico la scultura riprende il motivo della mitica lupa di Romolo e Remo per sottolineare il carico della maternità e del lavoro di cura. Rannicchiata tra le sue zampe, una figura femminile che rappresenta l’artista – cioè la stessa persona che le ha tagliato la gola – che sembra dirle: mi amerai lo stesso anche se ho cercato di ucciderti?
La strada si conquista con la lotta femminista
Sebbene i suoi demoni personali siano anche perfettamente estendibili a livello universale, il nome di Louise Bourgeois in questo momento è tutt’altro che sulla bocca di tutt*. Il suo lavoro, così rabbioso e viscerale, così lontano dalle linee pulite del formalismo che riempiono i salotti di collezionisti e collezioniste americani, fatica ad essere compreso da tutt* tranne che dal Movimento femminista.
Negli anni Settanta attiviste e teoriche della prima ondata riconoscono nell’esplosione di attributi femminili, nella rivendicazione della psicanalisi e nella violenza domestica che permeano i lavori di Bourgeois un riferimento alla loro lotta di liberazione. Louise diventa l’emblema di tutte quelle donne di talento relegate ai margini di un mondo dell’arte ancora tutto al maschile, ma lo diventa ad honorem, senza mai professarsi femminista ufficialmente.
Anzi, dal canto suo ripeterà in decine di interviste che il suo è un lavoro prima di tutto autobiografico, che non crede nell’esistenza di un’estetica femminista, e quello che fa è piuttosto un’arte senza genere, applicare la logica binaria non porta mai da nessuna parte. E in effetti, opere come Fillette – ma anche la donna-pene Femme couteau (1969 – 70) o l’organo bifronte Janus fleuri (1968) per citarne solo un paio – giocano con l’anatomia dei genitali per parlarci di sentimenti che prescindono dal sesso, di corpi in cui discutere del genere è mancare il punto. In ogni caso l’interesse femminista contribuirà a farle avere il giusto riscatto in termini di attenzione, ma mai quanto la scomparsa del marito.
Louise Bourgeois, She-Fox, 1985
Louise Bourgeois, She-Fox, 1985
Louise Bourgeois, She-Fox, 1985
Louise Bourgeois, Untitled, 1996
Louise Bourgeois, Untitled, 1996
Louise Bourgeois, Untitled, 1996
“La più vecchia dei giovani artisti”
Nel 1975 Bourgeois rimane vedova e decide di dare in pasto la sua expertise a student* e giovan* artist*, con cui si intrattiene a conversare e a scambiare idee nel proprio studio. Gli incontri si chiamano “Sunday, bloody Sunday” e da qui si capisce perché diventano così popolari. Questi momenti di confronto lasciano un’impronta indelebile nello stile e nei discorsi di queste persone e iniziano prematuramente a forgiarne l’eredità: pur essendo opere ormai vecchie di vent’anni, agli occhi delle nuove leve esplodono di novità. Le sue forme fluide si imprimono pian piano nel codice genetico di tutte le generazioni a venire, tanto che oggi è impossibile non guardare un’opera di una millennial senza trovarci qualcosa del malessere di Louise Bourgeois.
Nel frattempo, pur non smettendo mai di riconoscere alla scultura un potere catartico che la grafica non ha, Louise ha continuato a disegnare e produrre stampe, un corpus che il MoMA di New York ha esposto in una retrospettiva. Ma la sua prima volta al MoMA in realtà è stata nel 1982, e intendo la prima in generale, perché Louise Bourgeois è stata la prima donna della storia a cui il museo abbia dedicato una mostra personale.
Gli anni da qui alla sua morte sono i più prolifici della sua vita: inizia a esporre nei più importanti musei americani, fioccano mostre anche in Europa, riceve premi e riconoscimenti accademici. In questo periodo le sculture si evolvono in sistemi più complessi, si inquadrano in installazioni che le regalano la definitiva notorietà. Nel 1986 Louise si inventa Articulated Lairs, dove i nidi degli esordi sono appesi a una struttura circolare di pannelli incernierati tra loro.
A partire dal 1991 questa diventa la base di una serie di opere ambientali chiamata Cells. Le celle sono costruzioni claustrofobiche assemblate con due scopi principali: dare sfogo al suo dolore e frustrare gl* osservator*. L’artista ne produrrà in tutto 60, l’ultima nel 2008, alla tenera età di 97 anni. Il nome deriva dal loro aspetto, perché sono tutte composte da una struttura metallica – le prime da un assemblage di porte e finestre di recupero – che circoscrivono piccoli spazi. Louise ci mette al centro sculture prodotte ex novo e le arreda con object trouvè che farebbero la gioia di un* psicanalist*. Tra bambole, specchi, letti matrimoniali, scale a chiocciola, brandelli di tappezzeria e riproduzioni della sua casa d’infanzia in miniatura, spiccano i suoi vecchi vestiti e quelli della madre, appesi a ossa come quelle che i cani si contendono sbranandosi tra di loro.
Ogni cella è un meccanismo crudele che ripropone un ricordo della sua infanzia escludendo tutto ciò che c’è fuori: l* visitator* possono accedere solo a fatica, sbirciando, intrufolandosi, violando in qualche modo la loro intimità. La frustrazione del* voyeur è seconda solo a quella provata dall’artista nel non poter raccontare le sue emozioni in altro modo.
Nelle celle più mature gli abiti sono rimaneggiati con frasi a ricamo, oppure usati come materiale da costruzione: fatti a brandelli e poi ricuciti e imbottiti per dare forma a corpi a volte interi, a volte a pezzi, a volte solo raggomitolati al centro del loro isolamento. La pratica funziona al punto che Bourgeois la usa anche per creare fantocci di singoli arti, teste o torsi che sembrano usciti da una storia dell’orrore. Le sue figure spesso richiamano alla maternità nella sua accezione più disturbante: corpi mutilati che portano un feto sulla pancia, o hanno i capezzoli collegati a dei rocchetti di filo bianco; quando in cerca di un appiglio guardiamo il cartellino leggiamo solo: The Good Mother, 2003.
La stessa spensieratezza permea anche la serie delle Couple (1996 – 2009) in cui delle coppie di fantocci senza testa pendono dal soffitto abbracciate, oppure si avvinghiano dentro a una teca. Ma l’abbraccio, si sa, può metterci poco a passare da una fonte di serotonina a una morsa che ti toglie il respiro; la disperazione con cui le figure si aggrappano l’una all’altra, la presenza di una protesi ortopedica o altro dettaglio straniante riporta tutto all’uncanny, il perturbante che a Bourgeois è tanto caro.
La femmina del ragno
“La femmina del ragno ha una pessima reputazione – punge uccide. Voglio riscattarla” ha spiegato l’artista in una delle tante interviste che hanno cercato di farle riguardo a quella che è considerata al secolo la sua opera più famosa. Pur essendo uno dei protagonisti assoluti dei suoi disegni già dagli anni ‘40, il ragno viene trasportato per la prima volta nella terza dimensione solo nel 1995 con Spider I, un insetto gigante candidamente appoggiato su una parete del white cube.
L’anno successivo lo ritroviamo in Spider (1996), una cella composta da un cilindro di rete metallica addobbato con brandelli di arazzi antichi e altri memoires infantili, su cui incombe un ragno di bronzo con il ventre colmo di uova. Siamo di fronte ad una nuova, sublime combo di bellezza e orrore, di conseguenza non riusciamo a smettere di guardarla. In barba agli aracnofobici del mondo Bourgeois lo ripropone in versioni sempre più monumentali, disseminate negli spazi pubblici di tre continenti, a cominciare da quella che installa nel 1999 nel cuore della Tate Modern di Londra e che chiama Maman.
Louise Bourgeois, Arch of Hysteria, 1993
Louise Bourgeois, Arch of Hysteria, 1993
Louise Bourgeois, Arch of Hysteria, 1993
Louise Bourgeois, Maman, 2001
Louise Bourgeois, Maman, 2001
Louise Bourgeois, Maman, 2001
Siamo alla fine degli anni Novanta e il corpo è finalmente tornato al centro del dibattito artistico internazionale nelle sue accezioni meno lusinghiere: sessualità, frammentarietà, vulnerabilità e mortalità. Bourgeois è pronta, è competente, la sua reputazione è alle stelle. Nel 1993 è stata chiamata a rappresentare gli Stati Uniti alla 45° Biennale di Venezia e l’ha fatto con 12 opere tutte incentrate sul corpo e la psicanalisi. Arch of Hysteria (1993) era il pezzo forte: un uomo senza testa, curvato ad arco e appeso al soffitto con un filo. Dandoci l’impressione che l’opera sia sempre sul punto di cadere e frantumarsi da un momento all’altro, Louise dice a tutt* che l’isteria non è più un’esclusiva femminile. Il corpo, come spesso accade nelle sue opere in marmo e in bronzo, è un calco di quello di Jerry Gorovoy, l’amico che le fa da assistente per gli ultimi 30 anni della sua vita.
Maman (1999) arriva nel pieno di questo successo e lo sintetizza perfettamente. La scultura rappresenta una delle fobie più comuni su scala gigante: un ragno di acciaio a otto zampe, alto nove metri, eretto al centro della Turbine Hall in modo che le persone che ci camminano sotto ne siano insieme dominate e protette. Nella pancia sta covando delle uova di marmo (di Carrara of course), un dettaglio che la ricollega immediatamente alla maternità, tutta giocata al confine tra accudimento e terrore. Che il ragno sia una femmina non è un caso: Joséphine, proprio come questo animale, era una tessitrice. Il ragno è intimidatorio e benefico, mangia gli insetti molesti, ci fa del bene ma anche paura, e rende perfettamente il rapporto che l’artista aveva con sua madre.
Il riscontro è planetario: l’artista ne realizza 7 copie, tutte in bronzo, tutte enormi, la più famosa è quella davanti al Guggenheim di Bilbao. Grazie a queste sculture oggi il mondo ha dei monumenti celebrativi alla maternità, e non più solo all’eroismo maschile. Bourgeois riceve commissioni per monumenti site-specific da Russia, Giappone, Canada, Europa; collabora con Tracey Emin; crea opere a sostegno dei matrimoni omosessuali e della comunità LGBTQ; supporta un collettivo per la normalizzazione dell’immaginario sessuale nell’arte. Muore il 31 maggio del 2010, a 99 anni, nel pieno della sua attività.
I suoi meriti vanno oltre l’averci fornito un vocabolario espressivo per le psicosi di almeno due generazioni: Louise Bourgeois è stata la prima a mettere sul piatto la sfera familiare e della sessualità, a dare a questi temi la dignità di un soggetto artistico. Solo una donna avrebbe potuto farlo (nessun uomo avrebbe mai osato parlare di questi argomenti) ma le donne non raggiungevano il grande pubblico. Prima.
Tutto quello che ti serve per capire il lavoro di questa artista, e forse anche te stess*, lo trovi qui:
- M. L. Bernadac, H. U. Obrist (a cura di), Louise Bourgeois, Distruzione del padre. Ricostruzione del padre. Scritti e interviste, Quodlibet, 2008