Pierre Huyghe è un artista francese che si muove da decenni al limite tra umano e non umano, quel luogo meraviglioso in cui le due categorie si confondono l’una nell’altra mostrando quanto una linea di confine sia impossibile da tracciare. Per questo la rassegna più recente della sua opera, curata in collaborazione con Anne Stenne in parallelo alla 60. Biennale Arte di Venezia, si intitola Liminal.
Tuttavia pensare di trovarsi di fronte a una mostra qualsiasi è un errore, lo capisci appena metti piede a Punta della Dogana. Perché nel tempo in cui i tuoi occhi si abituano all’oscurità che pervade tutti gli ambienti è già chiaro che l’intento dell’artista non è parlarti di questo limite, ma fartelo vivere direttamente. Non che non sia già una condizione abituale, ma quello che ci serve è un boost di consapevolezza e – Pierre lo sa bene – per riconoscere la realtà, cosa c’è di meglio della finzione?
Questo percorso tra opere della Collezione Pinault mette in dialogo pezzi già noti con altri prodotti ad hoc e comincia con una nuova creazione che porta lo stesso titolo: Liminal (2024) appunto. Si tratta di un video che mostra la simulazione di una figura femminile nuda che si muove in un paesaggio extraterrestre.
Segni particolari: la donna non ha un volto, al suo posto c’è solo un ovale nero. L’unico modo in cui può comunicare sono i movimenti del corpo, che sono una risposta ai cambiamenti dello spazio espositivo generata in tempo reale da un’intelligenza artificiale. Dati come presenza o assenza delle persone, quantità di luce, temperatura, umidità vengono raccolti tramite sensori e microfoni ambientali e trasformati dall’IA in nuovi input creativi.
Con Liminal Huyghe ti presenta il suo biglietto da visita: quello che vedrai da qui in poi non sono manufatti, ma configurazioni. Un sistema che l’artista concepisce per evolversi autonomamente, arbitrariamente, insieme a te. Un prodotto che non è solo un meccanismo da osservare dall’esterno, ma che la tua presenza va a completare senza che tu possa controllare come.
L’esperienza di visita si struttura a tentoni, spostandosi da una fonte di luce all’altra come una falena, o come un pesce degli abissi. In pratica, sei nella stessa condizione delle creature della sala 3, chiuse nei quattro acquari che sono Zoodram 6 (2013), Circadian dilemma (el dia del ojo) (2017), Abyssal Plane (2015) e Cambrian explosion 19 (2013).
Con Zoodram 6 la citazione di Brâncuşi si fa esplicita: sul fondo della vasca c’è una copia della Musa dormiente – la scultura al secolo più quotata dell’artista romeno – qui abitata da diverse specie di granchi e di alghe, come accade ai rifiuti sulle spiagge oceaniche.
L’ibridazione tra organico e inorganico che si carica di riferimenti alla storia dell’arte viene ripresa in Abyssal Plane, dove troneggia un frammento di figura femminile sdraiata in cemento grezzo, che ricorda una scultura di Sarah Lucas o una divinità fluviale michelangiolesca. Su questo stacco di gambe riposano stelle marine, note per la loro capacità di rigenerare gli arti perduti.
L’ambiente è composto anche da sedimenti del fondale del Mar di Marmara, vicino a Istanbul, in collegamento con un progetto più ampio, Abyssal Plane, Geometry of the Immortals, con cui Huyghe vuole riproporre una piattaforma sottomarina che metta in dialogo l’ecosistema naturale con manufatti artistici.
Circadian dilemma si allinea a questa idea riproducendo le grotte dei fondali messicani: l’acquario è popolato da varie specie marine tra cui pesci tetra, quelli che vivono nelle profondità più oscure dell’oceano, cosa che gli è valsa l’appellativo di “pesci ciechi delle caverne”. La cecità e l’assenza di luce hanno avuto su di loro lo stesso effetto che avrà su di te questa mostra: ne hanno alterato il ciclo circadiano, permettendogli di sviluppare un orologio biologico indipendente dalla rotazione terrestre.
In Cambrian Explosion 19 una roccia affiora dal pelo dell’acqua sprezzante della gravità. Il fondo è fatto di rocce e sabbia su cui zampettano due specie di crostacei comparse sulla Terra durante il Cambriano – 540 milioni di anni fa – e rimaste da allora biologicamente invariate. Se pensiamo al concetto di resilienza, ecco da chi dobbiamo imparare.
La sensazione è che Pierre Huyghe abbia allestito la mostra nello stesso modo in cui ha costruito questi acquari: come degli ecosistemi nell’ecosistema. Totalmente disorientato e nelle sue mani, ti stai muovendo solo all’interno di un meccanismo di scatole cinesi, di una rete di rimandi tra un’opera e l’altra in cui i rapporti tra natura, cultura e tecnologia si riconfigurano di continuo sotto i tuoi occhi.
Questa modalità esistenziale convoglia un senso di spaesamento che Human mask, celebre video del 2014, traduce molto bene. L’opera ripropone il motivo della figura solitaria in un ambiente deserto con il volto coperto da una maschera, solo che questa volta la maschera ha lineamenti umani.
Il corpo è vestito da bambina, ma le membra pelose e i movimenti scimmieschi contraddicono subito questa impressione. Questa creatura si aggira in un ristorante nel sito ormai deserto di Fukushima, come ci confermano le immagini catturate da un drone che percorre le strade deserte all’inizio del video, dove Huyghe l’ha prelevata dopo il disastro nucleare del 2011.
La scimmia si muove nei locali abbandonati in un’atmosfera sospesa e a tratti simbolista; fa le azioni per cui gli umani l’hanno addestrata, ma in questo contesto sembrano gesti privi di senso. Il suono restituisce la percezione amplificata dell’animale – di nuovo, la stessa cosa che succede a te mentre visiti la mostra. Nel tuo caso peròil rumore di fondo è quello delle macchine (i sensori nelle sale o dei data server in bella vista al secondo piano) la materia grigia a cui devi la tua esperienza di visita.
Un ronzio meccanico fa da sfondo al film che occupa un’intera parete del cubo, Camata (2024); il titolo è un riferimento ad Atacama, il deserto cileno dove è stato girato, il più arido del mondo, noto per essere sfruttato dagli scienziati per testare le condizioni di vita umana su pianeti alieni e dalle big company per scaricare vestiti usati o estrarre il litio per i veicoli elettrici.
Qui un braccio robotico dotato di telecamera ispeziona i resti di uno scheletro inequivocabilmente umano con la perizia di un* paleontolog*, mentre altri due bracci collocano degli oggetti sferici e piccole pietre colorate tutto intorno, come una sorta di corredo funebre.
Da chi sono mosse queste macchine? In quello che fanno c’è un’intenzione scientifica, rituale, o è solo una perlustrazione istintiva, animalesca, di un materiale sconosciuto? E soprattutto: l’essere umano è scomparso solo dall’inquadratura o si è estinto proprio dalla faccia della Terra? Anche qui si tratta di un film autogenerato in cui il montaggio si riconfigura in tempo reale a seconda dei dati raccolti dai sensori nella stanza; il racconto non ha né inizio né fine, si ripropone soltanto in forma diversa.
Come per tutte le altre opere in mostra, il dubbio è dove collocare tutto questo da un punto di vista temporale: l’artista sta parlando di un mondo che è venuto prima della nostra comparsa o di quello che verrà dopo la nostra estinzione?
Liminal in realtà è quello che Pierre Huyghe chiama un “ambiente biosemiotico”, un ecosistema prodotto dall’interazione tra creature umane con forme di intelligenza non umane in un processo di apprendimento reciproco ma non cosciente. Esattamente quello che succede in Offspring (2018), al piano superiore: una sala vuota dominata da due strutture quadrangolari di metallo con luci da palcoscenico posizionate ad altezza pavimento e immerse nella nebbia. Luci e nebbia sono generate da una IA in risposta agli stimoli circostanti, nell’aria c’è la Gymnopédies 1 e 3 di Satie.
Ai lati della sala si siedono dei performer di cui l’unica cosa visibile nell’oscurità sono le maschere Idiom che indossano. Sono simili a caschi in ottone e dotate di schermi LED, per costringerti di nuovo a pensare alla Musa di Brâncuşi, o a un video dei Daft Punk. In realtà il design lo dobbiamo tutto al direttore creativo di Bottega Veneta, che ha fatto da sponsor all’esposizione.
Questi oggetti non sono solo materiale di scena ma sono equipaggiati di sensori che incamerano dati per tradurli poi in suoni pronunciati dai performer stessi, creando una nuova lingua franca tra macchina e umano.
In De-extinction (2014), opera che chiude la mostra, ti confronti di nuovo con una perlustrazione scientifica, solo che questa volta sei dentro la macchina, l’occhio della telecamera è anche il tuo. Insieme esplorate un pezzo d’ambra vecchio di 30 milioni di anni che conserva i resti di diversi organismi, tra cui due zanzare intrappolate durante la fase di accoppiamento. La materia amorfa del minerale rende tangibile lo spazio il tempo che ti separano da questi esseri; il corpo degli insetti, perfettamente conservato, non è né vivo né morto; la tua prospettiva, scandita dai rumori prodotti dai movimenti delle telecamere macroscopiche e microscopiche, non è né viva né artificiale. È un mondo bellissimo in cui vorresti restare per sempre.