Cosa succederebbe se smettessimo di considerare la Terra come una madre e iniziassimo a vederla come un’amante? Qui ti accompagno in un viaggio tra matrimoni con l’acqua, dirty talk alle piante e inaspettate forme di sessualità
Nella sua celebre serie Silueta Ana Mendieta, artista cubana in esilio negli Stati Uniti, cerca di ricongiungersi alla Terra inscrivendoci dentro il suo corpo. Dal 1973 inizia a imprimere le sue forme nel terreno pietroso del Messico, il luogo più vicino a Cuba dove le era ancora concesso arrivare, documentando il suo senso di perdita con le sagome vuote lasciate al suo passaggio. Queste specie di sculture in negativo, ripetute più di duecento volte in una varietà di materiali, dalla muffa alla polvere da sparo, erano un modo di risalire il cordone ombelicale che lega l’uomo alla natura, e di riconnettersi all’energia che secondo l’artista tiene uniti tutti gli elementi dell’universo, uomini, piante, insetti, astri che siano.
Ana Mendieta, Silueta de cenizas, Silueta series, 1976
Ana Mendieta, Silueta de cenizas, Silueta series, 1976
Ana Mendieta, Silueta de cenizas, Silueta series, 1976
Ana Mendieta, Silueta de cenizas, Silueta series, 1976
Ana Mendieta, Silueta de cenizas, Silueta series, 1976
Ana Mendieta, Silueta de cenizas, Silueta series, 1976
Pur essendo legata alla sua vicenda personale quest’opera stava mettendo in luce una piaga che abbiamo iniziato a concepire come tale solo molti decenni dopo: la separazione tra natura e cultura che caratterizza la concezione antropocentrica nel suo complesso. Una cesura che ha le sue radici nella metafisica cartesiana e nel Rinascimento, che hanno fatto dell’uso della tecnica la ragione dell’esclusività dell’essere umano e del suo dominio su tutta la biosfera.
Per secoli rincorrere il progresso tecnologico ha significato allontanarsi dalla natura: di più, le nuove tecnologie sono state impiegate come un mezzo per addomesticarla e sfruttarla, considerandola soltanto come luogo di evasione se non come serbatoio di risorse. Con l’Antropocene è la natura stessa che ci sta mostrando quanto questo modello sia solo un gingillo intellettuale: le impronte che abbiamo lasciato sul pianeta sono cicatrici che portiamo inscritte nel nostro stesso corpo.
Non è un caso quindi che di fronte al riscaldamento globale e alla sesta estinzione di massa il superamento della dicotomia natura-cultura, aka la riconnessione dell’essere umano con la Terra, sia tornata prepotente al centro del dibattito culturale e artistico, corroborata da pratiche di attivismo e critica sociale. A tal proposito nel suo saggio “All art is ecological” Timothy Morton mette in guardia dal ricorso a soluzioni “dall’esterno”, che partono sempre dal presupposto che l’uomo sia qualcosa di altro dalla natura, quando basterebbe uscire di casa e andare ad annusare le piante del proprio quartiere.
Una proposta che può lasciare perplessi ma è in realtà un invito a riscoprire la biofilia che c’è in noi, e ci ricorda che la premessa alla cura di qualsiasi cosa è mettersi in ascolto e conoscerla nell’intimo. Tra le varie cose sorprendenti che potremmo scoprire a tu per tu con il mondo vegetale c’è il rendersi conto che anche le piante possono sentirci, ma questa (come ci insegna David Abram in “The Spell of the Sensuous“) è un’altra storia. Liberatasi da un primitivismo dal retrogusto coloniale e da fantasie post-hippy, l’arte ha accolto il consiglio a braccia aperte e ha sposato la via della consapevolezza ambientale rivolgendosi al sesso.
All’ultima Biennale di Venezia l’artista cinese Zheng Bo ha presentato un film di 16 minuti girato in Svezia dal titolo Le Sacre du Printemps (Tandvärkstallen). All’interno di una foresta della contea di Dalarna, cinque ballerini scandinavi sfogano le loro pulsioni erotiche su alberi centenari, dimenandosi nudi nel sottobosco e strusciandosi su cortecce di pino. Tutto ciò viene eseguito dai performer a testa in giù, mentre la camera mostra l’immagine capovolta, così che i corpi sembrano pendere dalla terra come frutti maturi.
Il ribaltamento di prospettiva vuole proporre l’opera come qualcosa di più che un porno di categoria outdoor, e sottolineare la nostra affinità anatomica con i vegetali. Rispolverando la metafora platonica delle piante come esseri umani al contrario, ovvero con il cervello, le radici, collocato in basso e le propaggini motorie che fluttuano nell’aria, Le Sacre du Printemps invita le persone ad assumere una posizione diversa nel suo rapporto con i vegetali e suggerisce di ripensare il nostro legame con la natura senza pudore.
Zheng Bo, Le Sacre du Printemps (Tandvärkstallen), still da video, 2022
Zheng Bo, Le Sacre du Printemps (Tandvärkstallen), still da video, 2022
Zheng Bo, Le Sacre du Printemps (Tandvärkstallen), still da video, 2022
Zheng Bo, Pteridophilia 2, still da video, 2016
Zheng Bo, Pteridophilia 2, still da video, 2016
Zheng Bo, Pteridophilia 2, still da video, 2016
Se a questo punto ti stai chiedendo se le felci non vivano tutte queste pratiche come molestie è un’ottima domanda: l’uomo ha basato da secoli il suo rapporto con le piante sullo sfruttamento senza mai porsi la questione del consenso. Com’è stato possibile aver finalmente raggiunto questa consapevolezza? Merito del sesso, e della sua capacità endemica di renderci più sensibili alle dinamiche di potere. Conscio di quanto il destino di molte specie vegetali sia simile a quello delle minoranze e delle popolazioni colonizzate, Zheng Bo ha iniziato a lavorare con loro nel 2003, affiancandosi a biolog* e ecologist* per dimostrare che per costruire relazioni affettive e di cura è necessario mettersi in gioco anima e – soprattutto – corpo.
Questa idea viene portata avanti anche da un’artista, educatrice sessuale e attivista olandese: Melanie Bonajo. Nella sua arte, un mix di staged photography e trip allucinogeni, la comunione dei sensi è soprattutto un modo per approcciare i problemi del nostro tempo. Dopo aver messo in croce il concetto di progresso e sostenuto una nuova politica della biosfera con opere come Progress vs Regress e Matrix Botanica – Non Human Persons, anche Melanie è approdata alla Biennale 2022, per rappresentare il suo paese nella Chiesetta della Misericordia di Cannaregio. Qui ha proiettato la fantasia Pipilottiana When the body says Yes: un avviamento all’ecoerotismo che ci insegna che solo dopo aver imparato ad accettare e ascoltare il nostro corpo possiamo accoglierne un altro, qualsiasi esso sia.
Dedicata più specificamente alla sessualità non binaria e a come combattere il capitalismo a colpi di orgasmi è invece Night soil, realizzata tra il 2014 e il 2016. L’opera è un documentario composto da tre capitoli che raccontano tre esperimenti di resistenza e riconnessione con il mondo vegetale ai limiti della legalità. Persone frequentate e conosciute personalmente dall’artista parlano delle loro esperienze mentre scorrono immagini di corpi femminili ed elementi vegetali colti in momenti di intimità.
In Fake Paradise, Economy of Love e Nocturnal Gardening incontriamo rispettivamente un gruppo di donne dedite al consumo di Ayahuasca per accedere a esperienze extracorporee di comunione con la natura; una comunità di sex worker che guarda al non umano per liberarsi dalle strutture patriarcali e da una concezione univoca di desiderio, e contadini che sperimentano modelli di approvvigionamento meno spersonalizzanti, sia per l’uomo che gli animali. In barba a uno stigma impostogli da sempre, Bonajo rilancia il sesso come un’esperienza di comunicazione interspecie, condita da una certa dose di humor.
Ma l’idea di ricomporre il binomio uomo-natura in un amplesso era già sdoganata nel mondo dell’arte ben prima che l’approcciassero Bo e Bonajo. L’avevano messa nero su bianco due figure fondamentali: Annie Sprinkle e Beth Stephens, pioniere del Movimento Ecosessuale, che esplora i punti di intersezione tra ecologia e sessualità. Rispettivamente ex pornostar con un dottorato in filosofia e videoartista e docente universitaria, Annie e Beth hanno fondato il movimento nel 2011 per riunire tutte quelle persone che trovano la natura incredibilmente sexy, e in questa chiave vogliono prendersene cura. In Italia la coppia è conosciuta soprattutto per aver celebrato le proprie nozze con il mare a Venezia, durante la Biennale Arte del 2009.
In un caldissimo agosto le due hanno costruito questa unione come una performance itinerante che ha riunito 40 persone da 19 paesi diversi tra artist*, poet*, drag queen, ecologisti, sex coach, ballerin*, tutt* rigorosamente vestit* sui toni del blu. Mise e accessori erano tutti ideati dal* partecipant*, a cui non erano richiesti regali ma un contributo creativo in forma di testo, performance, elementi scenici o quant’altro.
Blue Wedding to the Sea converte il tradizionale Sposalizio con il mare celebrato dai Dogi fin dal Rinascimento in una sorta di pride acquatico che celebra l’affinità tra i due elementi piuttosto che il dominio di uno sull’altro. Circa il 70% del nostro corpo è composto da acqua, dunque com’è possibile che le sue sorti non ci riguardino? Nel corso di 8 ore Annie e Beth hanno gettato le fedi a largo e rinnovato i voti con azioni e reading densi di richiami alle morti in mare, all’inquinamento e all’avvelenamento delle specie marine, tutte problematiche che la laguna incarna perfettamente.
Il Blue Wedding to the Sea era solo il secondo delle decine di matrimoni che le due (già convogliate a nozze tra loro nel 2003 a San Francisco) hanno deciso di celebrare con elementi naturali particolarmente danneggiati dall’azione umana. Il primo è stato quello con la Terra, Green Wedding to the Earth nel 2008, dedicato alle montagne di Santa Cruz in California, a cui sono seguiti quello con la Luna, Purple Wedding to the Moon, bombardata di fresco dalla Nasa in cerca di acqua; quello con la neve, White wedding to the Snow nel 2011, con il monito di fermare il riscaldamento globale; quello con le rocce, Silver Wedding to the Rocks, a celebrare la loro capacità di conservare la memoria dei processi geologici; quello con il carbone, Black Wedding to the Coal, per ricordare i danni dell’estrazione di materie prime e così via.
Pur avendo una struttura abbastanza tradizionale questi matrimoni hanno come scopo generare amore: sono aperti al pubblico e includono oggetti di scena e pratiche severamente vietate ai minori come rotolarsi nud* su un letto di terriccio, avere orgasmi, abbracciare sconosciut* o intrattenersi in discorsi osceni con delle piante. La promessa, comune a tutti, quella di coltivare empatia e impegnarsi per prendersi cura dell’elemento naturale in questione finché morte non ci separi.
Tutte le cerimonie erano inquadrate in un progetto artistico della durata di 7 anni chiamato Love Art Laboratory su modello dei Seven Years of Living Art della mitica Linda M. Montano, che ha dedicato quasi una decade della sua vita a trasformare in arte le sue azioni quotidiane. Ricalcando il modello di Montano ogni matrimonio andava a coincidere con un chakra e a un colore specifico e celebrato in diversi luoghi del mondo, a seconda di quale catastrofe volesse denunciare. Nel tempo queste performance sono diventate una forma di attivismo autonoma che oggi le artiste incoraggiano a replicare su scala globale.
Grazie a questo tipo di operazioni si è costituita in breve una comunità di persone dai background più disparati, unite dal fatto di sposare una sessualità espansa, che va oltre i limiti del corpo e della penetrazione; una sessualità concepita non come un atto, ma come un’ecologia di relazioni. L’ecosesso dunque non si esaurisce nell’autoerotismo o di coppia, ma si propone come uno strumento di protesta contro capitalismo, guerra, cambiamento climatico, movimenti ultracattolici e tutto ciò che sta distruggendo il pianeta. E’ rifiutarsi di considerare i corpi come mezzo di produzione e di riproduzione per convertirli in generatori di conversazioni politiche e coscienza ambientale. Una sessualità che non dà benessere solo ai singoli, ma alla Terra intera.
Primo e più intimo supporter di questa impresa meravigliosa, ca va sans dire, Paul B. Preciado, che dopo aver recitato l’omelia di Blue Wedding Sea ha portato Annie e Beth anche a Documenta 14. Qui la coppia ha deliziato il mondo dell’arte con una dichiarazione d’amore all’acqua chiamata Wet Dreams, un Ecosex Walking Tour per le strade di Kassel e due versioni distinte della loro Sidewalks Sex Clinic, un’opportunità offerta gratuitamente ai passanti di ricevere consigli sessuali da espert* variamente qualificat*.
Mentre Wet Dreams era il primo esperimento di un happening rituale, le altre due azioni sono un format ricorrente per le artiste, che lo ripetono in ogni dove per stimolare i partecipanti alla ricerca dei propri e-spot e delle radici della propria ecosessualità. A Documenta 14 c’è stata anche la premiere del loro ultimo film, Water Makes Us Wet, uno dei tanti giochi di parole con cui a Annie e Beth piace vincere facile.
A dispetto del titolo gigione la pellicola nasce per parlare del problema della siccità in California, ma finisce per abbracciare una generale panoramica sulle problematiche che affliggono tutte le forme che l’acqua assume sul nostro pianeta, dall’inquinamento alla privatizzazione di Nestlè. Tra i vari interventi fa capolino anche quello di Donna Haraway, ex collega di Beth in università: riparata da un ombrello sotto la pioggia ci mostra quanto il suo “Staying with the trouble” abbia lasciato un’impronta indelebile sul loro pensiero.
In bilico tra ecofemminismo e la performance art di Fluxus, il Movimento Ecosessuale si propone quindi come una forma positiva di attivismo. Una nuova pratica di lotta che all’odio e alla violenza sostituisce l’arte, il sesso non riproduttivo e l’ironia. Il suo manifesto, pur riaggiornato in tre versioni (l’ultima è del 2020), ruota tutto attorno al presupposto che anche noi esseri umani siamo natura e, ammettendo anche lo humor che i genitali tradizionalmente si portano dietro, va sotto l’egida di quella che Roberto Jacoby chiama “strategies of joy”, un antidoto contro la paura.
In questo modo Beth Stephens e Annie Sprinkle promuovono anche un altro cambio di paradigma: cosa succederebbe se smettessimo di considerare la Terra come una madre e iniziassimo a vederla come un’amante? Potrebbe accadere di non aspettarsi più da lei dedizione incondizionata, ma cura reciproca. Potremmo impostare con lei una relazione paritetica, che tenga conto delle necessità e dei desideri di entrambi. Ammetteremmo più facilmente il rischio di perderla. Ci concederemmo forse anche qualche battuta sconcia. E soprattutto, sposandola le conferiremmo anche dei diritti giuridici, come già accaduto nelle costituzioni di Ecuador e Bolivia, e di recente stabilito dalla corte suprema di Madras, in India.
Proprio com’era stato per Joseph Beuys, altra loro reference dichiarata, vita, arte e attivismo per Annie e Beth sono una cosa sola. E noi, siamo abbastanza maturi per farci travolgere non solo dalla violenza, ma anche dal piacere?
Vuoi prolungare il piacere?
- A.Sprinkle, E.Stephens, J. Klein, Assuming the Ecosexual Position: The Earth as Lover, Minnesota Press, 2021
- Timothy Morton, All Art Is Ecological, Penguin Classics, 2021
- David Abram, The Spell of the Sensuous. Perception and language in a more-than-human world, Knopf Doubleday Publishing Group; 1st Vintage Books Ed edizione (25 febbraio 1997)
- Donna J. Haraway, Staying with the trouble. Making Kin in the Chtuhulucene, Duke University Press, 2016