L’articolo che segue ha avuto un lungo periodo di gestazione. Sono andata a vedere questa 59a Biennale Arte a fine giugno, e le aspettative erano altissime. Non so dirti esattamente cosa mi aspettassi, ma in media era qualcosa di memorabile. Colpa mia, me ne rendo conto. In ogni caso era evidente che la sera, con i piedi gonfi come canotti, la prospettiva di una doccia ghiacciata che si sarebbe comunque rivelata inutile e la quindicesima bustina di Polase in corpo non era il momento migliore per trarre conclusioni.
Ho capito che avevo bisogno di riflettere e scrivere a mente fredda, e alla fine è stato meglio così, perché in effetti molte considerazioni sono decantate solo con il tempo, discutendone con altri e cercando molto di contestualizzare. Così dopo questo lungo processo mi sento pronta per dire che sì, a prescindere da tutto questa è una Biennale che va vista, non solo perché è la prima curata da una donna, Cecilia Alemani, in 127 milioni di anni di storia della manifestazione, ma anche perché porta per la prima volta l’arte postumana in una sede istituzionale e, per di più, tenta di storicizzarla, cosa che nel nostro campo è sempre garanzia di dignità.
Altri due primati di questa edizione sono l’impegno per una riduzione delle emissioni (tutta l’energia usata per tenere in piedi la manifestazione proviene da fonti green) e l’essere la prima Biennale posticipata dalla Seconda Guerra Mondiale, ovviamente a causa della pandemia. Questo ha fatto sì che la curatrice abbia avuto molto più tempo a disposizione per organizzare la mostra, cosa che si nota dallo spessore del catalogo. Contatti e studio visit preliminari si sono tenuti tutti attraverso la rete, il che la rende a fatti anche la prima Biennale in telepresenza della storia.
Il titolo The Milk of Dreams/Il Latte dei Sogni deriva da un libercolo di Lenora Carrington su cui ritornerò più avanti. Per ora dico solo che si tratta della traduzione su carta delle storie fantastiche che l’artista disegnava per i suoi bambini direttamente sui muri della loro casa messicana. I personaggi di questi racconti sono esseri che si trasformano grazie all’immaginazione, da cui si evince che la mostra è inguaribilmente sedotta dal Surrealismo. Il riferimento al latte, nutrimento esclusivo del corpo della donna, ci avvisa che il tema della metamorfosi dei corpi verrà approcciato da una prospettiva femminile o, in senso lato, generativa.
A detta di Alemani l’urgenza di questa tematica è scaturita dalle conversazioni su Zoom, dominate dalla situazione eccezionale che stavamo vivendo. A faccia a faccia con un virus capace di decimare la razza umana le preoccupazioni più pressanti per l* artist* sono state quelle di un decentramento dell’uomo in relazione all’ambiente, agli animali, alle tecnologie e al non umano in genere, una disamina delle sue responsabilità verso questi comprimari, fino alla considerazione di una sua eventuale uscita di scena. In una parola: il postumano.
Grazie alla Biennale scopriamo finalmente che di artist* postuman* ce ne sono tant*: molt* impegnati nel ridefinire il concetto di uomo nel suo rapporto con l’alterità, prospettando forme non gerarchiche di coesistenza con il pianeta, molti a proporre saperi locali in risposta alla dissoluzione delle grandi narrazioni. Senza chiedersi come sarebbe se, Il Latte dei Sogni abbraccia direttamente questa prospettiva decentrata, non patriarcale e non eurocentrica, presentando al pubblico soprattutto artiste donne, di genere non binario ed extraeuropee.
Questo conferisce alla mostra un’impostazione non binaria che si sposa con la scelta di Rosi Braidotti e Donna Haraway come punti di riferimento teorici. Va da sé che i temi onnipresenti siano femminismo e decolonialismo (e in particolare come i paesi in via di sviluppo stiano ancora facendo i conti con questo processo) a favore di una decolonizzazione anche del nostro modo di pensare. Dopotutto, come diceva Sartre: “anche noi europei ci si decolonizza, ciò vuol dire si estirpa, con un’operazione sanguinosa, il colono che è in noi”, e questa mostra vuole chiaramente promuovere questo processo.
Come già anticipavo tutto ciò viene inserito in una prospettiva temporale che cerca di ricollegare i recenti sviluppi della ricerca artistica con le correnti più celebri dell’arte del Novecento. Questo avviene tramite le capsule del tempo, cioè piccole mostre di opere più datate che s’incuneano nel percorso principale mostrando come molte delle questioni sul piatto siano già state approcciate in tempi non sospetti. L’allestimento delle capsule è studiato per farle risaltare nella loro individualità ed è opera dei miei designer del cuore, Simone Farresin e Andrea Trimarchi, aka Formafantasma.
Questa soluzione non permette solo di soddisfare la brama enciclopedica della curatrice ma si allinea anche al trend ormai diffuso di adottare uno sguardo che dia il giusto credito al lavoro delle donne nei movimenti di Avanguardia, ancora mortalmente penalizzate da una storiografia sessista. Se sia riuscita davvero nell’intento non lo so, ma comunque apprezzo la presa di posizione.
La mostra si distribuisce tra le due classiche sedi di Giardini e Arsenale e nel complesso sembra dare ragione alla massima di Giacometti per cui “senza il corpo non esisterebbe nemmeno la storia dell’arte”. Ma entriamo nello specifico.
Il Padiglione Centrale ai Giardini
Come prescritto da chiunque, per una comprensione adeguata del progetto curatoriale la prima sede da vedere è quella dei Giardini. Nell’aiuola di fronte all’ingresso del Padiglione troverai due cannocchiali puntati sul tetto, in direzione di una teoria di piccoli squali di plastica che non sono un omaggio alle sorprese degli ovetti Kinder, bensì un inno all’immaginazione di Cosima von Bonin.
Tutto fa temere il peggio invece no, la prima sala ci riporta nel mood con l’elefante iperrealista di Katarina Fritsch, installato su un plinto circondato da specchi, con un potente effetto instagrammabile. Questa soluzione è una costante di questa Biennale, che accoglie volentieri opere molto grandi allestite in maniera ariosa e scenografica, volte a decomprimere l’esperienza contemplativa.
Qui il pachiderma è anche un riferimento a Toni, il vero elefante che viveva in cattività nel parco dei Giardini prima che diventasse una sede della Biennale. Da notare che insieme a Cecilia Vicuña, a cui è dedicata un’intera sala sempre al Padiglione Centrale, l’artista è anche la vincitrice del Leone d’Oro alla carriera di quest’anno.
Passato questo momento di celebrazione si entra nel vivo della mostra con tre capsule del tempo attorno alle quali come diecevo ruotano opere più recenti che trattano ancora le stesse questioni. Essendo concepite come micromostre ogni capsula ha anche un titolo specifico: la prima si chiama La culla della strega e mostra come le artiste militanti nelle prime avanguardie del Novecento (incluse Harlem Reinassance e Negritude) abbiano iniziato a contrastare la dittatura dell’uomo rinascimentale a suon di corpi a pezzi e anatomie ribelli.
In questa capsula ci sono figure tra quelle che amo di più, spesso in aperta critica con il maschilismo di Breton e Marinetti: contro la concezione della donna come semplice oggetto di desiderio o musa ispiratrice abbiamo le donne-civetta di Remedios Varo, gli autoritratti androgini di Claude Cahun, una piccola rosa di tele, illustrazioni, costumi di Lenor Fini, i corpi violentati di Carol Rama, le acconciature-siepi di Dorotea Tanning e l’emblematica sfinge-cyborg di Jane Graverol.
Sempre qui si trovano alcune opere di Lenora Carrington ma anche di artiste meno note come Valentine de Saint-Point, promotrice del Manifesto della donna futurista, e Enif Robert, autrice di “Un ventre di donna. Romanzo chirurgico”, che nel 1919 rivendicava l’isterectomia come un gesto di creatività futurista. Nel complesso solo in questa sala ci avrò passato un’ora.
L’idea di identità ribollenti e sfuggenti alle categorizzazioni è portata avanti nel percorso principale da figure come Birgit Jürgenssen, esperta dell’ibridazione femminile con il regno animale e vegetale; l’outsider artist Ovartaci – che durante una vita di internamento ha cambiato sesso due volte e prodotto una quantità di lavori tale da realizzarci un’intera sala della Biennale nonché un museo nella sua città natale, e dalle sculture di Andra Ursuta e Gabrielle l’Hirondelle Hill.
Mentre Andra realizza calchi della sua figura fusa con rifiuti e oggetti d’uso quotidiano che risultano in creature alla Predator atteggiate in pose da statuaria antica, Gabrielle imbottisce collant di tabacco trinciato. Questo materiale era uno dei beni di scambio più popolari nelle comunità indigene delle Americhe prima che venissero colonizzate, trasformando un’economia della reciprocità in una violenza a senso unico. Il risultato è un nudo disteso in scarpe da tennis, che ci offre un’infilata di mammelle con un simbolismo fin troppo eloquente.
La seconda capsula, Tecnologie dell’incanto, dà voce alle esponenti femminili dell’Arte Programmata e Cinetica: Grazia Varisco, Dadamaino, Nanda Vigo, Laura Grisi, Marina Apollonio e Lucia De Luciano che, vittime della fascinazione per i sistemi di computazione informatica, hanno riflettuto sui confini tra uomo e tecnologia nello snobismo generale di un ambiente autoproclamatosi maschile.
Molte di queste preoccupazioni sono state ereditate da Charlotte Johannesson, che vent’anni più tardi ha tessuto arazzi in fibra di Cannabis ispirati al funzionamento delle prime tecnologie informatiche per veicolare questioni sociopolitiche; ma anche da Agnes Danes che con la doppietta Evolution e Introspection II, Machines, Tools, and Weapons (1972) ha messo a confronto l’evoluzione umana con quella delle macchine e degli strumenti di cui l’essere umano si è avvalso nel tempo.
Tra composizioni astratte di cavi elettrici, petting con macchine da scrivere e gigantografie di iridi si arriva anche alla terza capsula, Il corpo orbita, dove artiste, scrittrici e intellettuali della poesia concreta e visiva come Tomaso Binga e Mirella Bentivoglio decostruiscono il linguaggio come forma di emancipazione. La selezione si allarga anche a materiale non prettamente artistico come fotografie di sedute spiritiche o disegni dettati da spiriti dell’aldilà e da automatismi inconsci.
Nelle vicinanze la mostra principale procede con una specifica sezione dedicata al “The Milk of Dreams” di Lenora Carrington, e una alle pitture e ai fantocci di Paula Rego – la tocca piano soprattutto quella in cui una matrona si ciba dei suoi figli comodamente seduta in poltrona. Segnalo anche il video di Sidsel Meineche Hansen, Maintenancer (2018) che segue la giornata tipo delle sex dolls di un bordello in Germania, da quando vengono accudite dai proprietari a quando sono loro ad accudire i clienti.
Sempre in ambito di connessioni inedite tra corpi si muove anche l’unica performance della mostra, Encyclopedia of Relations (2022–ongoing); qui Alexandra Pirici riunisce 6 performer in una coreografia che traduce in passi di danza varie forme di relazione e simbiosi tra corpi e natura.
L’Arsenale – Corderie e Artiglierie
Alle Corderie Il Latte dei Sogni ripropone l’entrata ad effetto con una scultura di Simone Leigh. Il mezzo busto di una matrona in bronzo giganteggia sulle teste dei visitatori come un’architettura nell’architettura, un po’ monito, un po’ comitato di benvenuto nell’africanità. Prima artista afroamericana a esporre nel padiglione USA, Leigh si è aggiudicata anche il Leone alla migliore partecipazione nazionale di questa edizione.
Gli spazi dell’Arsenale sono dominati dal discorso sul colonialismo e su come ricalibrare il rapporto dell’uomo con la Terra, a cominciare da Earthly Paradise (2022) di Delcy Morelo, un’installazione che invita a passeggiare in un labirinto di enormi zolle aromatizzate alla cannella. Impossibile non ricordare Donna Haraway e il sex appeal del compost, qui ma anche in molte altre occasioni lungo il percorso.
Precious Okoyomon dal canto suo realizza un ambiente perfino più umido di Venezia per raccontarci la storia del kudzu, una pianta giapponese importata negli Stati Uniti per potenziare la fertilità dei terreni impiegati nella coltivazione della canna da zucchero.
Avventurandosi tra pozze d’acqua, pietre, arbusti e lepidotteri l* visitator* si trova a fissare delle sinistre sculture fatte di lana e materiali organici, che sottolineano la similitudine tra questa pianta infestante e l’essere umano, sia per la loro dipendenza dalla terra che per la capacità di crescere al punto da sconvolgere l’ecosistema. L’installazione stessa seguirà questo trend, dal momento che le piante di kudzu di cui è fatta cresceranno anarchicamente nel corso dell’esposizione.
Un rapporto ancora più eccentrico con la natura emerge dal video di Zheng Bo, Le Sacre du printemps (Tandvärkstallen) (2021) in cui nudi maschili danno un saggio della filosofia ecoqueer pendendo dal manto erboso di una foresta grazie a un ribaltamento dell’inquadratura. A questo erotismo del vegetale fa eco la regista lituana Eglė Budvytytė, affascinata dalla capacità del corpo umano di rapportarsi allo spazio pubblico in modi non convenzionali.
Il suo Songs of the Compost (2020) prova a ridefinire i termini dell’interazione tra giovani corpi e ambiente naturale, con il quale i performer instaurano un dialogo fatto di escrescenze e contorcimenti. Entrambe le opere sembrano mettere in pratica il metodo di defamiliarizzazione suggerito da Braidotti per minare i pattern identitari obsoleti con un’inedita sensibilità ambientale.
Interessanti anche i tendaggi di Emma Talbot, densi di spunti di riflessione sul cambiamento climatico e l’Antropocene e dipinti nello stile apocalittico di William Blake, gli intestini gocciolanti di Mire Lee (Endless House: Holes and Drips), e il corto dell’artista palestinese Noor Abuarafeh. Quest’ultima opera riflette sulle modalità di conservazione ed elaborazione della storia (e quindi sulla costruzione della memoria di una nazione) in tre ambienti fondamentali: il museo, lo zoo e il cimitero.
Il video mette in luce diversi parallelismi tramite una voce fuori campo che accompagna le immagini di alcuni parchi naturali in Palestina, Egitto e Svizzera, e sottolinea le dinamiche di potere insite nelle scelte di esposizione, catalogazione e conservazione.
Alle Corderie si trovano anche le ultime due capsule del tempo, ovvero Una foglia, una zucca, un guscio, una rete, una borsa, una bisaccia, una bottiglia, una pentola, una scatola, un contenitore e La seduzione di un cyborg. Il titolo della prima si spiega come prestito da un’opera di fantascenza di Ursula Le Guin, e va a definire una serie di oggetti che, pur avendo avuto una fortuna storica minore delle pietre e dei bastoni che gli uomini preistorici usavano per difendersi e cacciare, hanno giocato un ruolo non meno importante nello sviluppo della civiltà.
La capsula prende come simbolo il concetto di contenitore, inteso nel senso di qualcosa che accoglie e protegge i prodotti naturali, per espanderlo in declinazioni scultoree e pittoriche di varia scala, inclusi alcuni esempi di ceramica hawaiana. Tra i pezzi esposti ci sono anche gli adorabili modelli di utero che Aletta Jackobs, prima donna ammessa in un’università olandese, ha usato nelle sue lezioni di anatomia. Dopo essersi laureata Aletta ha aperto una clinica per il controllo delle nascite e ha pubblicato uno dei primi libri in assoluto dedicati all’anatomia degli organi interni femminili.
La Seduzione di un Cyborg chiude l’esperimento delle capsule con un excursus sulle combinazioni tra essere umano e materia artificiale esplorate dai movimenti artistici del Novecento. Qui fioccano opere di Bahuhaus, Futurismo, Dada, Costruttivismo, tutti rappresentati dalla loro sempre taciuta compagine femminile, ma anche le bambole parlanti di Thomas Edison, un congegno di Roni Horn e un accenno al lavoro della scultrice Anna Coleman Ladd, la guru delle protesi del primo dopoguerra, che ha una storia affascinantissima che ti consiglio di andare a recuperare.
A testare forme di rapporto tra umani e macchine nella storia più recente ci sono, tra gli altri, i robot fatti in casa di Geumhyung Jeong, nati per interagire con l’artista nelle sue performance ma talvolta esposti come in una motofficina, e il video di Lynn Hershman Leeson, Logic Paralyzes the Heart (2021). Qui possiamo ripercorrere la storia dello sviluppo dell’Intelligenza Artificiale, raccontata da un cyborg nella speranza di colmare lo sbilanciamento empatico che ancora persiste tra macchina e essere umano.
Riflessioni a margine: più latte e meno sogni
Questa per Alemani non doveva passare alla storia come la Biennale della pandemia e così non è stato. Nemmeno le opere in mostra affrontano direttamente questo tema, eccetto forse una o due al massimo. L’unico portato percepibile della pandemia va letto tra le righe, e sta nel bisogno di recuperare il rapporto con la realtà fisica, nel desiderio di scardinare la relazione simbiotica che abbiamo instaurato con gli schermi per due lunghissimi anni.
Il Latte dei Sogni presenta tantissime installazioni che coinvolgono la vista, il tatto, l’olfatto; lo spazio dato al lavoro manuale/artigianale e all’arte tessile o scultorea è assolutamente preponderante. La maggior parte delle opere richiedono di avvicinarsi, annusare, girarci intorno e perdercisi dentro, dal più piccolo segno grafico alla costruzione di micro-ecosistemi. Anche le capsule sono allestite in un modo che solletica la sensualità tattile e materica.
Eppure non ti aspettare niente di troppo organico, vivo, interattivo, interdisciplinare; in questa selezione non c’è niente che non potrebbe tranquillamente stare anche su un manuale di storia dell’arte, a parte forse la coda pelosa di Marianna Simnett. L’arto funge da esca per invitare i visitatori a scostare la tenda rossa e accomodarsi di fronte a un’installazione video a tre canali che stimola ad entrare in contatto con il proprio “animal self” sfruttando tutta l’iconografia dell’universo fetish.
Nel complesso i media tradizionali, inclusi arazzi e ceramiche, lasciano in ombra i nuovi in un dispiego di skill manuali senza gerarchie tra le tecniche né tra provenienze geografiche. Il modo in cui Alemani tenta di sbarazzarsi dello sguardo colonialista è impegnarsi ad includere più prodotti possibili delle culture extraeuropee senza trattarle come curiosità esotiche; un tranello molto facile in cui cadere se consideriamo il contesto ospitante.
Quello che sta cercando di dirci è che non esiste più un’arte esotica in opposizione a un’arte occidentale, esistono soltanto elaborazioni locali di problemi globali, e questo la Biennale riesce in qualche modo a trasmetterlo, o per lo meno a dimostrare di volerlo fare. A me sembra una cosa assodata da secoli, ma mi rendo conto che oltre la mia bolla ancora non lo è.
A questo proposito c’è una cosa che bisogna dire: questa Biennale sa un po’ di vecchio. Bella, emozionante, seducente, impeccabile, ma vecchia. Nonostante molte delle opere in mostra siano state prodotte negli ultimi due anni, mentre ci camminavo dentro il feeling era che questa mostra sarebbe stata attuale forse 20 anni fa. Questo non lo dico perchè penso che l’arte postumana non sia più attuale, ma perché oggi dall’arte postumana mi aspetto qualcosa di più che descrivere la nostra condizione.
Un altro effetto collaterale non di poco conto è che Il Latte dei Sogni ha fatto emergere l’inadeguatezza della critica rispetto a questi temi. C’è chi si è soffermat* solo sul Surrealismo o sul Neo Surrealismo, chi si è spint* fino al femminismo e alle tematiche di genere, molti* hanno parlato della black reinassance e dei processi di decolonizzazione, tutt* hanno citato il postumano come da comunicato stampa ma si sono fermat* lì, intimorit*.
Se la curatrice è riuscita a non far passare questa come la Biennale della pandemia, non è però riuscita a farla cogliere completamente come la Biennale del postumano. Il titolo e la celebrazione dell’opera di Carrington da un lato ha aiutato a sdoganare un’impostazione come questa in una sede istituzionale, ma dall’altro ha un po’ minato l’attualità e l’urgenza di questi temi dislocandoli nel reame della magia e del fantastico.
Perché quello che si racconta qui non è un’ipotesi, non è distopia, non è sogno o mito. È la realtà. In qualsiasi modo deciderai di giudicare Il Latte dei Sogni l’importante è approcciarsi a quello che ti troverai di fronte con la consapevolezza che non è solo il corso che l’arte ha preso già da più di sessant’anni, ma anche quello che ha preso la nostra vita stessa. Il dettaglio fondamentale che questa mostra ha omesso di dire, è che postuman* a conti fatti lo siamo già.