Nel secolo della sesta estinzione di massa tra le tante cose in esubero ne abbiamo una in particolare: i post. Abbiamo il post-atomico, il post-fordista, il post-internet, il postumano naturalmente, e anche il post-fail. Di quest’ultimo si fanno portavoce i 4 membri del collettivo IOCOSE, artisti italiani noti per aver hackerato un’installazione di Ai Weiwei alla Tate Modern di Londra.
Nati formalmente a Bologna ma dislocati in ogni dove, Matteo Cremonesi, Paolo Ruffino, Filippo Cuttica e Davide Prati lavoravano a distanza già in tempi non sospetti. Insieme da più di dieci anni portano avanti la ricerca sulle le narrazioni dell’innovazione tecnologica e su come queste abbiano il potere di modellare la nostra visione del futuro con opere come Spinning the Planet (2013) e Moving Forward (2016).
La prima, realizzata per la società ST Microelectronics in collaborazione con Ars Academy Research risponde alla domanda “come la tecnologia può portare avanti il mondo” piantando 4 missili in una radura nel tentativo di sfruttare la loro propulsione per spostare l’asse di rotazione terrestre. Un manifesto della poetica degli autori tesa a farci considerare il fallimento come una condizione ineludibile del presente, e a mostrarci che il futuro nella maggior parte dei casi è solo quello che ci raccontiamo. Sulla stessa linea Moving Forward consiste in una serie di brevi video in cui oggetti di ogni tipo vengono spinti in avanti di pochi millimetri con la sola forza di un polpastrello.
Lo scorso autunno nell’ambito della rassegna di cui ti ho parlato qui, i 4 hanno presentato un nuovo video che ci invita a riflettere sui proclami mediatici che in questi mesi sono tornati a distoglierci dall’angoscia dell’estinzione con la prospettiva di un trasferimento su Marte. Quest’opera è il primo output di una ricerca tutta dedicata al movimento della NewSpace economy, incarnato dalla triade Elon Musk, Jeff Bezos e Richard Branson, predicatori e performer di una nuova colonizzazione su scala interplanetaria. Un mix di retorica messianica e avventure robotiche su cui IOCOSE sta riflettendo anche in questo momento con la sua personale in corso alla 16a edizione di ArtVerona. Dato che in questo momento sto facendo ricerca sulla stessa cosa, ho deciso di importunarli con alcune domande.
Partiamo dal vostro manifesto: in cosa consiste l’Art After Failure e cosa si intende per Post-Fail?
Post Fail è l’espressione con cui riassumiamo la nostra ricerca e produzione artistica. Circa 6 anni fa ci siamo trovati di fronte alla necessità, oltre che all’opportunità, di mettere per iscritto una serie di riflessioni sul nostro percorso artistico e su quello che ci spingeva a fare arte. Sintetizzando, abbiamo concluso che l’aspetto che più ci interessa è il conflitto tra il futuro e il presente generato dalle numerose promesse di evoluzione tecnologica con cui ci confrontiamo quotidianamente. Non si tratta solo di scetticismo verso un nuovo modello di gadget tascabile, un avveniristico drone, o un razzo lanciato su Marte, quanto una vera e propria fascinazione per il contrasto con cui queste novità vengono annunciate e il loro utilizzo ed impatto nel presente.
È come se le grandiose promesse di riscatto sociale, culturale ed economico delle nuove tecnologie fossero inevitabilmente destinate a fallire, e a confrontarsi con risultati molto più banali. Ci siamo detti che le nostre opere sono in effetti riflessioni su questo momento successivo al fallimento, in cui guardiamo alle tracce lasciate nel presente dalle narrazioni sul futuro e le riadattiamo, rimescoliamo e trasformiamo in qualcosa d’altro. In questo senso la nostra è un’arte che ci piace definire Post Fail, successiva alla presa di coscienza di un fallimento.
Nel manifesto fate notare che la narrazione del futuro influenza il presente e di conseguenza dà lei stessa forma al futuro. Elon Musk lo sa bene e tra proclami su alieni e piramidi e annunci messianici non manca mai di affascinare le masse: cosa è emerso dalla vostra ricerca per Pointing at a New Planet dall’analisi della sua retorica?
L’aspetto a nostro avviso più affascinante di questo tipo di retorica è il linguaggio. È il motivo per cui abbiamo accompagnato il video con la canzone karaoke, che riprende le parole usate da Musk nel parlare di NewSpace. Un linguaggio che centrifuga gli slogan corporate tipici della Silicon Valley, con uno smaccato spirito colonialista ottocentesco, uniti all’ossessione tecnologica geek per numeri e proprietà dei materiali e una nostalgia per quella fascinazione verso la corsa allo spazio che ha caratterizzato la cultura occidentale nel dopoguerra.
Ci affascina il modo in cui i verbi, i nomi e gli aggettivi enunciati dai promotori del NewSpace travalichino la conquista spaziale per parlare di criptovalute, automobili, reti neurali artificiali impiantate nel cervello. E ancora, come questo linguaggio usato per promuovere il progetto millenario di una umanità interplanetaria si trasformi in azioni che fluttuano in borsa.
IOCOSE, Launching a New Product, 2018
IOCOSE, Launching a New Product, 2018
IOCOSE, Launching a New Product, 2018
IOCOSE, Pointing at a New Planet, 2020
IOCOSE, Pointing at a New Planet, 2020
IOCOSE, Pointing at a New Planet, 2020
IOCOSE, Pointing at a New Planet, 2020
IOCOSE, Pointing at a New Planet, 2020
IOCOSE, Pointing at a New Planet, 2020
Come giudicate l’apertura delle missioni spaziali al settore privato, un rischio o un’opportunità?
Noi non la vediamo come un’apertura. Gli Stati hanno da sempre finanziato aziende private, soprattutto quando si tratta di armamenti. Ad esempio, l’amministrazione Trump ha sostenuto il privato nella produzione e ricerca necessaria a supportare il progetto di difesa Space Force. Piuttosto sarebbe interessante se dalla liberalizzazione del viaggio spaziale e dall’abbattimento dei costi venissero fuori progetti ideologicamente alternativi, come immaginava l’Associazione degli Astronauti Autonomi agli inizi degli anni ‘90.
Nel 2012 la non-profit olandese Mars One ha annunciato l’intenzione di creare il primo insediamento umano su Marte entro il 2025. L* astronaut* coinvolt* nella prima missione avrebbero dovuto stabilirsi per sempre sul pianeta rosso per gettare le basi di questa colonia; nonostante questo alla chiamata hanno risposto migliaia di volontar*. Al di là delle favole che ci raccontiamo, noi esseri umani siamo davvero pronti per diventare una specie multiplanetaria?
Non ci pare che l’umanità abbia brillato nella gestione di un pianeta, figuriamoci due o tre. Ci sono poi degli evidenti limiti fisici e tecnologici che rendono la creazione di un insediamento su Marte poco più che un miraggio. Tra questi, la distanza dal pianeta Terra, l’alto livello di radiazioni, la totale mancanza di risorse fondamentali alla vita umana. Ad oggi i rischi e i problemi eccedono i vantaggi derivanti da una base marziana. Motivo per cui il NewSpace è più interessato al clamore mediatico che ad un’effettiva colonizzazione di Marte.
In un saggio uscito di recente Francesca Ferrando si interroga sulle modalità di esplorazione di altri mondi e rileva che nel nostro approcciarci a pianeti sconosciuti stiamo adottando ancora una volta una prospettiva ottocentesca e colonialista. Secondo voi queste incursioni nello spazio ci stanno aiutando ad abbandonare il modello antropocentrico o lo stanno solo ingrandendo di scala? Per non riproporre il modello colonialista basterebbe modificare la narrazione?
Esiste un problema di fondo legato all’immaginazione dell’alterità, pensata da una prospettiva colonialista come uno spazio uniforme, liscio e privo di attrito. Il movimento NewSpace condivide da questo punto di vista l’immaginario colonialista che vede nel nuovo mondo una mappa prima che un territorio, un campionario di risorse, e una superficie da plasmare a piacimento. Si pensi a come lo spazio che separa la stratosfera terrestre da quella marziana sia pensato, nei grafici e video del movimento NewSpace, come una vastità vuota e senza frizione, sebbene sia alto il rischio di imbattersi in detriti spaziali, meteoriti, e radiazioni.
Per quanto riguarda l’antropocentrismo e il cambiamento della nozione di essere umano, dipende. Secondo quale vocabolario e secondo quale contesto storico? Se ci riferiamo alla figura dell’imprenditore nell’economia capitalista nel mondo occidentale, questi novelli space cowboys non aggiungono nulla di nuovo.
Per l’uomo il soggiorno su altri pianeti non comporterà soltanto l’apertura di nuovi mercati ed economie o l’accesso a nuove risorse naturali, ma richiederà sicuramente un adattamento anche dal punto di vista biologico, per rendere la nostra anatomia più adatta alle ecologie aliene. È possibile che anche per la ricerca aerospaziale funzionerà come per quella militare, cioè che molte delle innovazioni elaborate per i primi astronauti presto vengano importate anche in ambito civile, entrando a far parte del nostro quotidiano?
Per rispondere alla prima parte della tua domanda basterebbe far notare come l’idea di modificare il corpo umano, di pensarlo come un’entità storica, non come qualcosa di finito e immutabile ma al contrario passibile di modifiche nel tempo, sia il fondamento del concetto stesso di cyborg prima e postumano poi. Nel 1960 Nathan Kline e Manfred Clynes pubblicarono un articolo scientifico intitolato Cyborg and Space nel quale utilizzavano per la prima volta in assoluto il termine cyborg per esprimere la possibilità che un organismo, con adeguate modifiche, potesse essere in grado di adattarsi alla vita nello Spazio esterno.
I due scienziati non riuscirono mai a realizzare quell’idea, in compenso da quel momento in poi la figura del cyborg, come sappiamo, ebbe un impatto enorme sulla cultura letteraria e cinematografica. Anche su questo fronte insomma non ci troviamo molto di nuovo, quanto invece la riproposizione di sogni e prospettive tra lo scientifico e il fantascientifico che hanno una storia di svariati decenni.
La ricerca aerospaziale attuale e quella militare sono sempre state molto vicine, si pensi agli ingegneri tedeschi che fabbricarono i missili v2 per bombardare Londra e poi contribuirono alla corsa allo spazio degli anni ‘60, sotto la bandiera americana e sovietica. O si pensi alla Space Force già citata prima.
La ricerca militare da sempre ha ripercussioni sulla vita di tutti i giorni: questo è un tema che è stato al centro di una serie di nostri lavori intitolata In Times of Peace nella quale ci siamo concentrati proprio sull’impatto delle ricerche e tecnologie nate in ambito bellico, come i droni, e la loro successiva applicazione nel mondo ludico e nella vita quotidiana.
In “Dieci ragioni per cancellare subito i tuoi account social” Jaron Lanier sostiene che internet in sé nasce buono, sono i social che sono il male. Voi siete attivi dagli albori della Net art, che idea vi siete fatti da allora a oggi, la rete alla fine è buona o cattiva?
Sarebbe facile rispondere che sono gli esseri umani ad essere buoni o cattivi, ma sarebbe una risposta facile ad una questione complessa – e, dunque, una risposta sbagliata. Siamo dell’avviso che tracciare una linea netta tra umano e tecnologico, tra i corpi e le interfacce, tra l’etica pre- e post- internet, sia di fatto indecidibile e fuorviante. Preferiamo navigare a vista, annodando a mano i fili che troviamo per strada, cercando di capire dove ci conducono e da dove vengono.
Più di tanti altri IOCOSE ha riflettuto sul ruolo del* artist* nelle dinamiche telematiche di consumo e produzione culturale; alla luce della pandemia quali sono le questioni più pressanti che mettono in campo Internet e le tecnologie digitali oggi secondo voi, sia per un* artist* che per qualsiasi essere umano? Ci sarà quindi anche una post-pandemic art?
Certamente abbiamo visto un numero crescente di avvenimenti nel mondo dell’arte legati al nuovo (s)bilanciamento economico generato dalla pandemia. Si pensi a come il mondo delle cryptocurrency, che hanno conosciuto un boom nell’anno della pandemia, abbia dato a nuovi acquirenti la possibilità di investire su nuovi asset, cosa che ha (molto probabilmente) sostenuto la diffusione dei Non-Fungible Token (NFT). Gli NFT sono un esempio di arte che esula dal mondo delle gallerie fisiche e del mondo ‘materiale’, per così dire, anche se hanno devastanti ripercussioni sull’ambiente per l’elevata quantita di Co2 generata con ogni scambio.
Per quanto ci riguarda, questa pandemia ci ha costretto a passare più tempo online di quanto non ne passassimo prima, e non ci è dispiaciuto. La nostra sensazione è quella di essere oltre qualsiasi tipo di assuefazione. Se fosse andata a fuoco la casa saremmo restati a giocare a Mario Kart o a scrollare una lunga lista di meme. Se dobbiamo scegliere una questione tra le tante scaturite da questa pandemia, è capire quale spinta sarà in grado di darci internet per dare forma al mondo in cui vivremo, e se questa spinta sarà verso il divano o in un’altra direzione.
Qualche dettaglio sulla vostra personale in corso ad ArtVerona?
La mostra raccoglie le opere d’arte più recenti del nostro lavoro sul NewSpace. In esibizione abbiamo una video installazione e una serie di stampe. Nel video Pointing at a New Planet, la mano di Elon Musk, ricostruita in 3D, vola sulla superficie desolata di Marte, mentre scorrono i testi del karaoke di una canzone composta usando i tweet più surreali di Musk. La canzone è composta e cantata da Albertine Sarges, una musicista e cantante berlinese che ha collaborato con noi fin dall’inizio della realizzazione di queste opere.
Il video è installato all’interno di strutture geodesiche, un tipo di architettura spesso visibile nei rendering delle future basi extra-terrestri. L’architettura geodesica, esempio per eccellenza di efficienza e scalabilità, fu teorizzata originariamente da Buckminster Fuller a partire dagli anni ‘50.
Fuller, la cui filosofia promuoveva nuovi modelli architettonici volti a massimizzare l’energia della ‘astronave Terra’, fornì un primo esempio di quell’approccio alla conoscenza alla base di invenzioni successive come internet: un modello reticolare in cui ogni nodo è ugualmente fondamentale alla struttura complessiva. Ci sembra curioso come questa struttura che incorpora la visione romantica di internet, smentita poi nei fatti, venga riproposta dagli attori del NewSpace come modello per le future colonie marziane.
Il secondo artwork della mostra è The Fortune Teller, una serie di immagini circolari rappresentanti delle mani atterrate sul terreno di Marte. Le mani hanno tatuate sulla pelle degli slogan del movimento NewSpace, raccolti durante la nostra ricerca, accompagnati dai simboli dei pianeti utilizzati dalla chiromanzia. Gli annunci sul futuro dell’umanità del movimento NewSpace diventano delle predizioni del futuro che portano queste mani solitarie a spiaggiarsi sulla sabbia rossa di Marte.