Mentre scrivo alla carlier gebauer di Berlino è in mostra l’ultima fatica del duo Pakui Hardware (aka Neringa Cerniauskaite and Ugnius Gelguda) un’installazione che si intitola Absent Touch e denuncia un male tipico dei nostri tempi. L’opera è un assemblaggio di forme e materiali che, come spesso accade nel loro lavoro, ha l’aspetto di un accumulo di materia organica, ma sterilizzato da tutto ciò a cui il termine “organico” potrebbe far pensare.
Pakui Hardware è un nome che deriva dall’unione di due concetti apparentemente lontanissimi: Pakui, la divinità hawaiana celebre per la sua velocità nella corsa, e il termine hardware, usato per definire il corpo, l’elemento fisico della macchina. Le installazioni che i due artisti snocciolano con metodo dal 2014 cercano di riconciliare due fattori altrettanto distanti: il corpo umano e la tecnologia, nella forza espressiva dei materiali. L’idea è di proporre un corpo post-organico e post-naturale, che è a fatti quello verso cui ci stiamo avviando.
Absent touch nello specifico vuole far leva sulla consapevolezza sensoriale e tattile del visitatore per portarlo a riflettere sulle implicazioni della telechirurgia e dei sistemi di “cura virtuale” in cui il rapporto col materiale biologico avviene esclusivamente tramite la mediazione di un elaboratore. Una riflessione che si adatta perfettamente anche alle visite a distanza new entry di questo folle 2020, che hanno trasformato perfino il rapporto medico-paziente in un interscambio di dati. Se poi allarghiamo lo sguardo al di là dell’ambito sanitario, questo rarefarsi delle occasioni di contatto è una tendenza in ascesa anche nel nostro quotidiano, e spesso ugualmente risolta ricorrendo alla tecnologia, nonostante la tecnologia stessa sia anche in buona parte la responsabile del problema.
Dentro abbracci meccanici
Facciamo un passo indietro. Siamo nel 2019, a Milano, nel palazzo della Triennale. La mostra in corso è Broken Nature. Design Takes on Human Survival e ci parla di come il nostro pianeta stia gentilmente invitando la specie umana a ridimensionare il proprio impatto sull’ecosistema attraverso una serie di progetti al confine tra design e speculazione. Una delle sale al piano terra è occupata soltanto da un tavolo coperto da un telo rosso che somiglia a un canotto gonfiabile. L’ambiente è completamente spoglio ad eccezione di un neon che proietta una luce arancione a picco su questi oggetti. Appena fuori dalla sala c’è un cartello che spiega la paternità dell’opera e il suo funzionamento. Si tratta di un’installazione di Lucy McRae – un’artista che lavora da anni sul rapporto tra tecnologia e emozioni – che ha senso solo se attivata dalla partecipazione del pubblico. A orari precisi della giornata, previa prenotazione, il visitatore più impavido potrà accomodarsi sul tavolo e introdursi nell’installazione come in una sorta di bozzolo.
A questo punto verrà azionato un meccanismo che gonfierà il tessuto in modo da comprimere delicatamente il corpo del malcapitato. Per scongiurare gli attacchi di panico, al visitatore sarà concesso di manovrare dei bottoni per controllare l’intensità di questa esperienza. Quella che vista da fuori scatena le peggiori fantasie claustrofobiche sarà per il protagonista una terapia benefica, che gli donerà una complessiva sensazione di piacere e senso di protezione. Tutto questo è reso possibile da un ormone, l’ossitocina, che è quello che viene rilasciato durante il contatto fisico con la persona amata, e che la macchina riesce a stimolare in gran quantità attraverso una serie di movimenti mirati. La Compression Cradle nasce esplicitamente per curare la mancanza di affetto a cui l’uomo sta andando incontro nella sua corsa all’iperconnettività, chiedendosi come cambierà la nostra specie se si evolverà verso un’esistenza priva di contatti fisici. Molte delle risposte ci sono arrivate quest’anno, l’indimenticabile 2020, in cui un oggetto come questo andrebbe direttamente prodotto in serie come accessorio base della vita domestica, spodestando il monopolio delle poltrone massaggianti.
Conscia di essere sulla strada giusta, già pochi mesi dopo Lucy McRae ha ampliato il suo portfolio creando anche un più pratico Compression Carpet, una macchina dispensatrice di teneri abbracci. In un mondo in cui il distanziamento sociale e i dispositivi digitali ci stanno togliendo l’intimità di cui abbiamo naturalmente bisogno, sarà tra le braccia di una macchina che ci andremo a consolare? Quello che è certo è che in assenza di altri esseri umani nelle vicinanze, una serie di cuscini azionati da un congegno meccanico possono regalare al corpo un po’ di conforto; grazie all’uso di toni pastello simili a quelli dell’incarnato, il tocco della macchina risulta ancora più familiare.
Tutti abbiamo bisogno di essere toccati
Sulle suggestioni delle poltrone massaggianti si è costruita anche la serie dei Tickle Robots, concepita da un altro duo Erwin Driessens e Maria Verstappen. Negli anni Novanta i due artisti hanno progettato tre congegni mobili che con la grazia di piccoli insetti riescono ad automatizzare il piacere di una coccola tra esseri umani. Spear (1993) accarezza la superficie corporea come un sottile filo d’erba mosso dal vento, Tickle (1996), è una capsula in alluminio dotata di sensori e minuscoli piedini rosa, che perlustra le pendici corporee lasciando una piacevole sensazione di picchiettamento, ottimo soprattutto se provato di schiena.
Tickle Salon (2002) chiude il cerchio e porta questa esperienza a un livello professionale, costituendosi come un’installazione interattiva in cui i visitatori possono sdraiarsi e beneficiare di una “sessione di accarezzamento” offerta da un piccolo robot sospeso. Proprio come le poltrone massaggianti, il potere di questi progetti è nel rispondere a un bisogno universale: come ama ripetere Margerita Soldati “tutti abbiamo bisogno di essere toccati”. Parlando di questo tema è impossibile non menzionare il portfolio di questa artista, che prende quanto mai sul serio questo problema. Il fatto è che tutti i sensi umani, secondo Soldati, sono in realtà un’estensione di quello del tatto. L’organo che regola questo tipo di percezione, la pelle, è il più esteso che possediamo, e anche il più ricettivo. Ci avvolge interamente e regola i nostri rapporti con il mondo esterno, ma è anche un vero e proprio prolungamento del cervello. La neurologia insegna che un abbraccio ha molto meno a che fare con il romanticismo di quello che siamo abituati a pensare.
Gli studi del Touch Research Institute – University of Miami hanno dimostrato che una pressione esercitata sul corpo umano non stimola solo la produzione di ossitocina ma risveglia anche il nervo vago, producendo un abbassamento della pressione del sangue e il rallentamento generale dell’attività neuronale. Mentre questa sostanza aumenta il cortisolo e altri ormoni responsabili dello stress tolgono il disturbo: quello che in gergo chiamiamo rilassamento. Soldati dimostra quanto questo processo sia matematico creando opere dalle elevatissime qualità tattili, studiate appositamente per suscitare risposte confortanti da parte del nostro sistema nervoso. I pezzi includono una serie di installazioni permanenti che vanno sotto il nome di The Skin is an Extension of the Brain e l’inserzione in spazi architettonici di soffitti, tendaggi e superfici che invitano a toccarli, ascoltarli, annusarli, e a concentrarsi sulle molteplici sfumature di queste operazioni.
Lavorando sulla texture e sulla ripetizione di forme e colori organici, Soldati prova a rimettere in discussione il significato di superficie, decisa a stimolare un’interazione più appagante con gli ambienti che abitiamo. La sua opera più recente, Skin Hunger, prende il nome da quello che succede quando questa necessità biologica non viene soddisfatta, ovvero che iniziamo a sentirne un maledetto bisogno. A quel punto il desiderio di toccare e farsi toccare riesce ad essere urgente quanto quello di nutrirsi; per soddisfarli tutti e due in una volta sola l’artista ha ideato una serie di performance gastro-tattili organizzate in forma di una colazione a base di 5 portate. I piatti, spesso somministrati in forma di monoporzioni, sono da consumare seduti all’interno di piccole serre, assistiti da Margherita e dalla chef/artista Alice Heron. Ciascun partecipante, inizialmente bendato, viene guidato dalle due artiste in un percorso multisensoriale rinforzato da massaggi ed esercizi di respirazione.