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Incontri

Un’esperienza non fisica non è necessariamente di serie b. Parola di Lucy Hardcastle

By 27 Agosto 2020Settembre 10th, 2024No Comments11 min read

Ogni volta che mi trovo di fronte alla tradizionale retorica spazio fisico vs digitale – secondo cui il primo è la realtà mentre il secondo sarebbe solo una simulazione – mi viene sempre in mente il lavoro di Lucy Hardcastle, che guida a Londra uno studio interdisciplinare nato proprio per rendere evidente l’assurdità di questa visione. Ciò accade fin dalla home page del loro sito, rinnovato recentemente durante il Covid, che da sola vale più di un manifesto poetico.

Cliccando qui ti troverai in Wetlands, un ecosistema digitale creato dall’interazione a distanza tra esseri umani. La sua struttura è composta dai dati dell’attività neurologica della sua creatrice, registrati mentre toccava diversi materiali, e quelli prodotti in tempo reale dalla tua navigazione sul suo sito, il tutto tradotto in forme 3D.

I frutti di questa interazione si materializzano in forma di rilievi rocciosi intervallati da pozze d’acqua iridescenti, spolverati da particelle di pulviscolo a colori pastello e adagiati su un seducente tappeto sonoro. Questo paesaggio da fiaba cambierà costantemente in base alle tue azioni: spostandoti a 360° potrai generare una dispersione di colori, onde e mulinelli. Risultato: la prima landing page in cui passeresti le ore.

Wetlands rende ancora più debole l’idea che internet sia un posto bidimensionale fatto solo di immagini, cosa che contraddistingue tutti i lavori di Lucy Hardcastle, volti a mostrare come la tecnologia stia cambiando il rapporto dell’essere umano con i propri sensi. Lo stesso accade in un’altra sua creazione, Intangible Matter, commissionata da i-D magazine e Chanel – un’opera d’arte digitale che risponde alla domanda: si può vedere un profumo? O anche, più in generale: si può trasformare una sensazione olfattiva in una visiva?

La risposta di Lucy è un sito web ad accesso libero che funziona come una sorta di videogame immersivo. L’opera si compone di cinque ambienti digitali diversi, fatti di suono, grafiche seducenti, e masse fluide interattive che danno l’ebrezza di mettersi due gocce del mitico Chanel n°5 anche a chi non se lo può permettere. Il sito è ancora online e lo puoi provare qui.

Lucy Hardcastle studio, Wetlands, 2020

Lucy Hardcastle studio, Wetlands, 2020

Lucy Hardcastle studio, Wetlands, 2020

In un mondo in cui la computer grafica è usata per creare duplicati perfetti della realtà, Lucy invece inverte le coordinate. Lo fa anche in opere come i Phygital Objetcs, o Untitled, rispettivamente sculture artigianali in resina o vetro soffiato che traducono in oggetti reali forme progettate con software di modellazione 3D e fotografie che restituiscono le proprietà fisiche del vetro come fosse CGI.

Il problema è che in entrambi i casi sulle prime è impossibile distinguere quale delle due stiamo guardando. Opere come queste ci dicono che lo spazio digitale è reale e concreto tanto quello fisico, ma ha le sue coordinate e regole che vanno conosciute, se vogliamo viverci dentro.

Un buon punto di partenza per farlo sarebbe trovare un modo più critico di rapportarci agli slime, dalle gelatine, dal pongo, e da tutte quelle cose molli a colori brillanti che la gente maneggia su Instagram con grande pletora di follower e che vanno sotto il nome di video soddisfacenti (oddly satisfying ti sembrerà più familiare). Attraverso queste diavolerie lo spazio digitale ci dice qualcosa del nostro modo di provare sensazioni, in particolare che non nascono sempre dove ce lo aspetteremmo. Guardare una cascata di sabbia o una torta tagliata al rallentatore provoca un brivido lungo la pelle che è anche una sensazione tattile e…gustativa. Banchetti luculliani consumati con l’amplificatore, sfregamenti e picchiettamenti di microfoni (digita ASMR su Youtube, ti si aprirà un mondo) aggiungono all’atto della visione e dell’ascolto un piacere erotico.

Il lavoro di Lucy Hardcastle trasforma tutta questa stimolazione neuronale in qualcosa di più che semplice pelle d’oca o coadiuvante del sonno, cioè in un’esperienza conoscitiva che, come sempre accade con le nuove tecnologie, parte dall’oggetto ma finisce per rivolgersi verso noi stess*. Lucy ha meno di trent’anni e io l’ho scoperta da quando It’s Nice That l’ha messa nell’elenco degli One’s to Watch 2018. Dopo il lockdown ci siamo sentite per parlare di Wetlands e delle mie paturnie sulla nostra convivenza con lo spazio digitale.

Lucy Hardcastle studio, Phygital Objects, 2016

Lucy Hardcastle studio, Phygital Objects, 2016

Lucy Hardcastle studio, Phygital Objects, 2016

Lucy Hardcastle & Ryan Hopkinson, Untitled, 2017

Lucy Hardcastle & Ryan Hopkinson, Untitled, 2017

Lucy Hardcastle & Ryan Hopkinson, Untitled, 2017

Lucy, prendiamola larga: se dovessi presentarti a qualcuno che non è del settore cosa diresti per descrivere il tuo lavoro e il tuo profilo professionale?

Se dovessi descrivere quello che faccio a qualcuno che non fa parte del settore creativo mi definirei prima di tutto e soprattutto un’artista e una designer che crea opere visive che spesso si focalizzano sul mondo digitale o su quello virtuale come ad esempio la rete, l’animazione digitale e la mixed reality. Per far sì che questo diventi realtà c’è bisogno di un gruppo di persone con varie capacità, motivo per cui ho fondato uno studio, in modo che il lavoro di tutti quanti esista come un’entità sola.

Quale pensi che sia la differenza più significativa tra fare esperienza di uno spazio fisico e di uno digitale? Credi, come fanno in tant*, che lo spazio online sia meno reale di quello in cui siamo sedute?

Direi che la differenza principale quando si tratta di ambienti digitali è che gli osservatori tendono ad avere una maggiore apertura mentale sulle esponenziali potenzialità e sulla percezione di come il digitale/virtuale potrebbe configurarsi. Penso che il campo della realtà aumentata o mista sia eccitantissimo perché è lì che i confini tra fisico e digitale possono davvero confondersi e sovvertirsi, e io credo che si arriverà al punto in cui elementi di realtà digitale diventeranno comuni anche nella nostra vita quotidiana. Si potrebbe ribattere che gli spazi digitali sono meno reali, ma come qualsiasi tipo di ricordo, un’esperienza non viene percepita necessariamente come di serie b solo perché non è fisica, e questo è l’ambito che mi stimola di più.

Con il lockdown la mia vita ha virato decisamente sulla dimensione online. Quello che un tempo consideravo come alienante si è trasformato improvvisamente nel mio unico collegamento con la realtà di prima, mentre il mondo fuori dalla finestra era spaventoso e ostile, perfino. Secondo te la quarantena ha cambiato il nostro modo di percepire la rete e di abitarla?

Penso che il lockdown abbia decisamente cambiato l’importanza e il valore degli spazi digitali, ci ha fatto percepire il tempo e la nostra esistenza più relativi e meno legati alla produttività. Mi sembra che ci abbia anche fatto apprezzare l’importanza della “fisicità” nelle nostre vite nel momento in cui abbiamo perso la possibilità di interagire fisicamente con le altre persone, sia che la andassimo a cercare trascorrendo più tempo nella natura o con gli oggetti di casa. Credo che questo confermi la mia tesi che ci sia ancora un grande scollamento tra la tecnologia che siamo costretti a usare abitualmente, come gli schermi piatti, e l’importanza di variare il tatto o di usare anche gli altri sensi di cui noi, in quanto esseri umani, necessitiamo come una sorta di “arricchimento” della nostra esistenza.

Se non erro Wetlands è stato concepito proprio in questo periodo. Come hai passato tu la quarantena e come ha influenzato il tuo lavoro e il tuo processo creativo?

Con il mio studio avevamo iniziato a pianificare un rebranding generale, incluso un nuovo sito, già a febbraio, e poi a marzo è stata sviluppata l’idea di Wetlands. La quarantena è stata un’esperienza molto solitaria per me, cosa che non mi è dispiaciuta, e che probabilmente è stata anche abbastanza salutare, essendo un’introversa. Ho avuto il privilegio di essere in una situazione in cui potevo comunque accedere al mio studio, cosa che mi ha permesso di avere una solida struttura per concentrarmi su questo progetto. Il mio team e tutte le persone che lavoravano su Wetlands erano lontani, cosa che non è sempre il massimo per comunicare! Per certi versi comunque è stato il momento ideale per investire un enorme quantità di energia in un progetto nato in autonomia (Lucy di solito lavora per clienti e brand nda), e allo stesso tempo per riflettere e rivedere i valori dello studio nel suo complesso. Credo che per gran parte dell’industria creativa la quarantena ci abbia portato a riconsiderare cosa volevamo ottenere dal posto di lavoro e in potenza cambiare la struttura e il significato del lavoro stesso.

Lucy Hardcastle studio, Wetlands, 2020
Lucy Hardcastle studio, Wetlands, 2020
Lucy Hardcastle studio, screen da Intangible Matter, 2017
Lucy Hardcastle studio, screen da Intangible Matter, 2017
Lucy Hardcastle, Glow, 2014
Lucy Hardcastle, Glow, 2014

Wetlands porta avanti anche il concetto di interazione che hai iniziato ad esplorare con Intangible Matter. Crea un collegamento tra te e l* utent* del sito, si configura come un modo di condividere sensazioni e dati con persone da ogni parte del globo, un’esperienza che nel mondo fisico difficilmente sarebbe possibile. Può essere anche considerato come una sorta di “best practice” per l’uso dei dati in maniera più costruttiva di quella a cui siamo abituati?

Entrambi questi progetti rappresentano uno dei temi su cui lavoro con lo studio, cioè la User-Lead Experience. Il momento più reattivo e trasformativo per un utente secondo me è quando riesce ad avere un certo livello di influenza, controllo o coinvolgimento in qualcosa che è legato al web. Per quanto riguarda i dati personali volevo usare Wetlands come un modo per rendere performativi i dati biometrici e dargli un significato, è stato quasi come creare un gemello digitale. Questo è sicuramente un modo più costruttivo di usare quel tipo di dati, ma penso che qualsiasi uso dei dati personali dovrebbe essere messo in discussione e analizzato nei suoi propositi per capire chi ne trae profitto.

Nel testo di uno dei post dello studio su Instagram tu descrivi la vostra pratica come dotata di “un senso fluido della fisicità, concepito come una sensazione di ‘leccare lo schermo’”. Puoi spiegarci cosa intendi nello specifico?

La sensazione di “leccare lo schermo” significa che noi produciamo texture digitali pensate per lo schermo, ad esempio le animazioni, con proprietà tattili particolarmente intense o dettagliate, al punto che sembrano quasi edibili, dando all’utente la sensazione di voler rompere la superficie per raggiungerle, toccarle o assaggiarle.

Credo che il tuo lavoro in questo momento sia più importante che mai perché cerca di supplire alla carenza sensoriale delle nostre esperienze online, e ormai anche delle nostre vite in generale. Di recente ho scritto un articolo su artist* come Eric Paulos, che ha fatto ricerca su ciò che ha chiamato “tele-incarnazione”, cioè sulla possibilità di entrare nell’ambiente digitale non più con un solo senso ma con l’intero corpo. Quali sono l* artist*/creativ* che ti ispirano di più?

Al momento Pakui Hardware, Natsai Audrey Chieza di Faber FuturesCècilia Poupon e Olafur Eliasson (sempre!).