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C’era una volta il Post Human. Jeffrey Deitch e una mostra di 30 anni fa.

Sono più di cinque anni che parlo di arte e postumano come altri parlano di donne e motori, ma c’è voluta una pandemia per far sì che l’argomento iniziasse a riscuotere un po’ di successo. Quello che mi ha sempre penalizzato è soprattutto la scarsissima conoscenza che si ha di questo argomento, che perfino adesso dopo il Covid continua a generare fraintendimenti e mistificazioni. Quindi cosa significa esattamente postumano e da dove è uscito questo termine? Com’è potuto accadere che si sia legato al mondo dell’arte? Si può davvero parlare di un’arte postumana senza creare sarcasmo e disagio? Andiamo con ordine.

Postumano, questo sconosciuto

Il postumano è una revisione del concetto di uomo generata dall’impatto con i progressi tecnologici, le scoperte scientifiche, i cambiamenti nei comportamenti e nelle relazioni e le imminenti catastrofi ambientali. Il postumano è quello che è accaduto nel momento in cui l’uomo ha scoperto di essersi collocato per secoli al centro dell’universo senza averne diritto, e ha capito che avanti così non si poteva andare. Come tale il postumano rappresenta sia una condizione sia una prospettiva per il futuro, e sta mettendo in discussione i fondamenti di quasi tutte le discipline.

Yasumasa Morimura, Brothers (A Late Autumn Prayer), 1992, foto a colori montata su tela

Al vecchio modello messo a punto dalla tradizione umanistica occidentale (maschio bianco, caucasico, dominante e al di sopra di tutte le specie, viventi e non viventi) si sta sostituendo un uomo nuovo, autopietico, di genere fluido, di etnia indefinita e identità mutevole, compenetrato dalla tecnologia, intimamente connesso con il regno animale e vegetale, con il quale sa di condividere lo stesso destino, che si spera solo non sia quello dell’estinzione.

Come sempre accade nei movimenti culturali di così ampio spettro è difficile stabilire il momento esatto della comparsa di questo fenomeno (qualcosa a metà tra le allucinazioni di Marvin Minsky negli anni ’50 e gli scritti di Ihab Hassan degli anni ’70) ma possiamo comunque risalire a chi ne ha sancito l’ingresso nel mondo dell’arte. In questo caso il merito va a Jeffrey Deitch: artista, curatore, critico e gallerista americano, ex direttore del MOCA di Los Angeles, è stato tra i primi a rendersi conto che qualcosa stava cambiando, e ha deciso di notificarlo con una mostra intitolata Post Human.

Felix Gonzalez-Torres, Untitled (Go-Go Dancing Platform), 1991, legno, lampadine, pittura acrilica e ballerino in bikini di lamé

Post Human ha segnato la storia non solo per una questione lessicale, ma anche per aver riunito per la prima volta artisti che stavano cercando di dare una forma figurativa a questa nuova concezione di uomo, con esiti puntualmente inquietanti. La mostra si è tenuta tra il 1992 e il 1993, prima al Museo di Arte Contemporanea di Losanna, poi in Italia, al Castello di Rivoli, e ha acceso i riflettori su un modo di fare arte radicalmente nuovo, sia dal punto di vista delle forme che delle modalità espressive.

Nell’introduzione al catalogo Deitch traccia un quadro di prospettive e timori che anticipa alcuni temi caldi del dibattito postumanista che si sarebbe sviluppato di lì a poco ponendosi una domanda che ancora oggi resta senza risposta: questo cambiamento significherà la fine dell’umanità o l’avvento di una nuova era in cui avremo la libertà di riprogettarci e riconnetterci all’ecosistema in maniera più costruttiva?

Con l’obiettivo di stimolare una riflessione su quale sarà il futuro dell’uomo (e di conseguenza anche quello dell’arte) Post Human ha cercato di sviscerare le implicazioni delle rivoluzioni di cui sopra: dall’estensione delle facoltà cerebrali umane attraverso le tecnologie ai progressi della genetica, dalla chirurgia plastica al cambiamento climatico, fino all’impatto di tutto questo sulla nostra cultura e sulla società.

Sylvie Fleury, Untitled, 1992, tappeto, sofà, scarpe e scatole da scarpe

Lo ha fatto attraverso le opere di 36 artisti, allora giovani, oggi dei veri e propri big del contemporaneo, accomunati da due elementi in particolare: l’ossessione per il corpo e un uso smodato del “Senza titolo”. Il primo potrebbe non stupire: il corpo è sempre stato il medium privilegiato della ricerca artistica, eppure mai come in questo momento sembra essersela passata così male. Nella storia dell’arte è passato dall’incarnare la divinità e la perfezione a simboleggiare ideali politici e civici, a testimoniare la frammentazione dell’individuo, fino a diventare un vero e proprio campo di battaglia.

Deitch si accorse che nel mortificare il corpo in maniera fisica e psichica artisti come Mattew Barney, Christian Marclay, Jeff Koons, Kiki Smith, Jeanine Antoni e Damien Hirst non stavano solo producendo un’arte figurativa degna di nota, ma stavano reinventando il modo stesso di fare arte. I modelli a cui attingevano si moltiplicavano di pari passo con le possibilità espressive: ci si ispirava alla grande arte del passato come ai talk show televisivi, si faceva appello alla microbiologia come all’ingegneria informatica e qualsiasi medium era lecito pur di tracciare nuove possibili esistenze.

Jeanine Antoni, Lard Gnaw and Chocolate Gnaw, 1992, cubo di cioccolato e cubo di lardo di circa 270 Kg cad, masticati dall’artista

Le opere si componevano di corpi smontati, deformati, negati, denudati e denunciati nella loro debordante sensualità. Pezzi di carne smembrati e riassemblati in configurazioni inedite e stranianti, ibridati con un immaginario mediatico in bilico tra organico e inorganico, che invece di rassicurare il visitatore lo confondeva, proiettandolo in un film dell’orrore fin troppo familiare. Ma permettimi di accompagnarti in questo viaggio attraverso quattro opere fondamentali.

Il “sex appeal dell’inorganico”

Una delle star della mostra è stato sicuramente Paul McCarthy, l’anti american dream per eccellenza, specializzato in opere che mettono alla prova anche gli stomaci più forti per la nobile causa di denunciare la società consumistica occidentale. Per l’occasione l’artista ha presentato The Garden, un fazzoletto di terra sintetica arredato come un parco pubblico con all’interno le riproduzioni iper-realistiche di due uomini in camicia e braghe calate.

Uno dei due, in posizione eretta, copulava con un albero, l’altro, disteso con la faccia a terra, cercava di fare più o meno la stessa cosa. Il tutto sembrava ancora più realistico grazie a un congegno meccanico che permetteva alle sculture di muoversi, producendo anche un inquietante ronzio.

Paul McCarthy, The Garden. 1991-92, installazione con piante e sculture meccaniche in giardino sintetico

Lo spettatore si trovava nella posizione scomoda del voyeur, e riusciva a intravedere solo in parte quello che stava succedendo. Nell’opera non c’era nulla di erotico, era la rappresentazione di un atto puramente meccanico e ripetitivo: quello di uno sfruttamento fuori controllo del mondo naturale ma anche l’espressione di una sessualità inorganica, sganciata dalla necessità riproduttiva, priva di intimità e di calore umano e votata solo allo sfinimento. L’uomo di McCarthy era un automa posseduto da una cieca ossessione di possesso che non saziava mai sé stessa.

Al di là del maschile e del femminile

Altrettanto disumana la figura composta (o scomposta?) da Cindy Sherman in un Untitled del ’92. Fin dalla serie di fotografie Untitled Film Stills (1977-88) il tema principale del lavoro di questa artista è stato la decostruzione degli stereotipi femminili e maschili che popolano i mass media, la pubblicità e il cinema. La serie Sex Pictures, di cui fa parte questa immagine, rappresenta la più controversa, nonché un’eccezione, perché non include nessun soggetto umano – e in particolare non l’artista, che di solito è la protagonista di tutti i suoi scatti.

Cindy Sherman, Untitled #261, 1992, stampa cromogenica a colori

Al suo posto Sherman usa bambole e protesi mediche, rimuovendo, aggiungendo, mixando e ricombinando arti per creare immagini di ambigua sessualità. Le sue bambole hanno espressioni vuote, qualsiasi accenno di umanità è rimosso. I corpi sono ricomposti in anatomie improbabili; alludono a posizioni pornografiche, ma sono svuotati di qualsiasi erotismo, un tentativo impossibile di una reincarnazione della donna in una forma finalmente libera dallo sguardo e dal desiderio maschile.

Cindy mescola membri femminili e maschili in pose innaturali e disarticolate, accomunando entrambi i generi nella paura del dismembramento e della dissoluzione. I suoi soggetti sono solo imitazioni di esseri umani, ai quali negano qualsiasi possibilità di individualità e profondità spirituale. Ancor peggio, cercano di dirci che il corpo umano non è altro che un costrutto filosofico e culturale.

La fine del corpo

Membra vacanti e decontestualizzate sono la cifra stilistica distintiva anche delle opere di Robert Gober, che a questo aggiunge un collegamento con l’universo onirico e il linguaggio ambiguo del Surrealismo. Le disturbanti e perturbanti giustapposizioni di arti umani ed oggetti che di solito compongono le sue sculture evocano temi di infanzia, perdita, ricordo e sessualità, oscillando tra realtà e illusione, macabro ed erotico.

Robert Gober, Two Spread Legs, 1992, cera d’api, cotone, legno, pelle e peluria umana

Nei suoi lavori Gober evoca il corpo soprattutto attraverso la sua scomparsa e questa pratica raggiunge il suo apice nei senza titolo, che rappresentano parti anatomiche completamente decontestualizzate. In questo caso ci troviamo di fronte a polpacci e piedi dello stesso artista, riprodotti in cera con un iperrealismo che va dai mocassini e il calzino alla pelle bianchiccia che spunta dalla gamba del pantalone. Tocco di classe: l’aggiunta di un pizzico di vera peluria umana.

Con il suo lavoro l’artista non fa che disinnescare la divisione arbitraria dei corpi in dualismi come maschile e femminile, omosessualità ed eterosessualità, erotico e abietto, orribile e divertente. Queste gambe che spuntano dalle pareti come se il corpo fosse l’architettura stessa, o peggio come se l’architettura se lo fosse ingoiato, sono un incontro/scontro del profondamente alieno con il profondamente ordinario che rende giustizia al “perturbante” di Freud.

Robert Gober, Two Spread Legs, particolare, 1992

Per questa trovata Gober si è ispirato sia al non-finito delle sculture di Rodin che alla statuaria classica. Non diversamente da quanto accadeva nei busti romani, l’artista offre al pubblico soltanto un terzo di porzione di figura umana, con la differenza che lui parte dai piedi e non dalla testa. Questa scelta va a sabotare il significato fondante della scultura celebrativa, che invece di connotare un preciso personaggio qui diventa un monumento universale all’uomo qualunque.

Perturbante is the new normal

La sensazione di “perturbante” è ben espressa anche dalle sculture di Charles Ray, che hanno la particolarità di non lasciare mai indifferenti. Le sue opere sono sempre sconcertanti, potenti e psicologicamente caricate. Pochi artisti hanno saputo minare la tradizione scultorea come quest’uomo, il cui obiettivo è rinnovare la tradizione, e non solo trarne ispirazione. I suoi soggetti sono per la maggior parte gente comune, riprodotta con piccole ma sostanziali alterazioni, atte a far scattare una specifica tensione nell’osservatore.

Charles Ray, Mannequin Fall ’91, 1991

Di una semplicità estrema sulle prime, le sculture di Ray instillano piccoli drammi nei canoni della scultura classica fatti di bellezza ideale e armonia di proporzioni, inserendo slittamenti, imperfezioni o “ultraperfezioni” condite sempre anche da una sottile vena ironica. Mannequin Fall ’91 in particolare – conosciuta anche come Big Lady – è l’opera che ha esposto per Post Human, e rappresenta una semplice donna in carriera in tailleur anni Novanta, ritratta in una posizione più che classica, con il peso retto tutto da una gamba e l’altra leggermente piegata, finché non ci si avvicina e ci si rende conto che si tratta di un manichino alto quasi due metri.

Il risultato è spiazzante sia dal punto di vista fisico che psicologico, come si evince dalla foto che ritrae l’opera accanto all’autore. L’idea del manichino è venuta a Charles Ray dopo aver lavorato come custode notturno in un grande magazzino; affascinato dal rapporto tra fantocci e esseri umani, da quel momento in poi ha deciso di farne il fulcro della sua figurazione. I riferimenti artistici invece sono i manichini di De Chirico e ancora una volta il Surrealismo. L’obiettivo di Ray è di provocare e prendersi gioco delle aspettative dello spettatore sfruttando i cambi di scala. In questo modo il visitatore si trova di fronte ad una sorta di doppio straniante, simile a lui ma con cui non si riesce più a identificare.

Martin Kippenberger_Martin Stand in the corner and shame on you, 1990, scultura di bronzo in abiti di cotone

Nel complesso Post Human è stata un ricettacolo di opere provocatorie e spietate. Il suo merito è di aver riunito un gruppo eterogeneo di artisti, tutti figli della performance e della Body Art anni Sessanta, svelando nevrosi, paure, desideri e ambiguità della società contemporanea. Ne è emerso un quadro decisamente pessimista e inospitale: l’umanità descritta dalle opere di Paul McCarthy o Charles Ray è un concentrato di narcisismo e perversione, malata di omologazione e alienazione, che fatica a riconoscersi allo specchio. Ma se, come si dice, identificare il problema è già il primo passo per superarlo, allora non c’è niente di cui preoccuparsi.

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