Dada: una parola che non vuol dire nulla, ma che ha incarnato un’epoca e l’arte d’avanguardia di due continenti. Un termine senza senso, come apparentemente tutta la produzione artistica che se ne fregiava, ma che nella rivendicazione del caos assoluto ha espresso meglio di chiunque altro il fallimento del progresso, della morale borghese, dei nessi logici, gli effetti collaterali dei media e l’avvento dei cyborg.
Politicizzat* com’erano non stupisce che l* dadaist* abbiano preso posizione anche sulla deriva tecnologica che stava prendendo la società all’alba del XX secolo. Osservando le opere del gruppo si notano soprattutto due tendenze: quella che usava la macchina come metafora dell’uomo, sposata per lo più dal* esponent* di New York e Zurigo, e quella in cui la macchina si fondeva con il corpo, portata avanti dalla sezione di Berlino. Dei due sono stat* l* berlines* ad avvicinarsi di più al concetto di cyborg come oggi lo conosciamo, ma prima di entrare nel vivo devo fare due premesse fondamentali.
Prima di tutto: cos’è un cyborg? Sebbene si possano scrivere enciclopedie a puntate sull’argomento sarò molto breve: il cyborg è un’entità ibrida generata dall’impatto dell’uomo con le tecnologie digitali. A questo punto potresti già farmi cinquanta obiezioni, perché in effetti il concetto è oscillato molto nel corso degli anni dalla sua prima teorizzazione; eppure le definizioni di cyborg come sistema di elementi biologici e meccanici che coesistono in armonia (Clynes & Kline), o di uomo potenziato da inserti artificiali (Wiener), se stiamo parlando di postumano non centrano l’obiettivo. Secondo: la Prima Guerra Mondiale, cioè la prima guerra meccanizzata su scala globale. Quella che tutti pensavano sarebbe durata solo sei mesi si è trasformata presto nella strage di migliaia di giovani che dal fronte non sono più tornati. Allora la cieca fiducia nel ruolo salvifico dell’industrializzazione e della tecnica ci ha messo poco a trasformarsi nell’orrore e nel pessimismo apocalittico che conosciamo bene anche oggi. Oltre che ampliare a dismisura le abilità tecniche in fatto di protesi, questa guerra è stata pionieristica sotto altri due aspetti: suggellare il connubio tra strategia bellica e ricerca tecnologica, e spianare il terreno al Transumanesimo. Pacemaker, esoscheletri, protesi meccaniche che oggi ci salvano la vita vengono tutti da studi concepiti in ambito militare per potenziare un corpo sano con capacità degne dell’universo Marvel.
Raoul Hausmann, Tatlin a casa, 1920
Raoul Hausmann, Tatlin a casa, 1920
Raoul Hausmann, Tatlin a casa, 1920
Hannah Höch, Dada-Review, 1919
Hannah Höch, Dada-Review, 1919
Hannah Höch, Dada-Review, 1919
In questo campo ancora oggi nulla sembra fermare la ricerca, nemmeno il timore che la componente macchinica possa prendere il sopravvento sulla capacità decisionale umana; forse perché in fondo, come diceva Federico II: “Se i miei soldati iniziassero a pensare, nessuno rimarrebbe più nelle fila.” In ogni caso fucili automatici, carri armati, granate e compagnia disillusero le premesse già nel 1918, trasformando una generazione di giovani entusiasti del progresso nelle orde di mutilati che si trascinavano per le strade di Berlino esibendo le loro protesi, come mostra questa riproduzione di un famoso quadro di Otto Dix.
L’opera originale è andata perduta, vittima dell’unico slancio curatoriale di Hitler, la nota rassegna di arte degenerata Entartete Kunst, e poi presumibilmente distrutta. E pensare che Dix (che durante la guerra aveva prestato servizio come mitragliere) su questa tela aveva riproposto semplicemente quello che vedeva quando usciva a fare due passi: cortei di reduci rattoppati alla bell’e meglio imprigionati in corpi improbabili, disumani sia fuori che dentro, e non solo per colpa degli innesti meccanici. A differenza dell’* artist* Futurist*, che avevano caldeggiato la causa del superuomo, quell* Dadaist* sono figl* delle conseguenze di questi entusiasmi, avendo partecipato all’eccidio in prima persona. Tutto quello che hanno visto, sia sui campi di battaglia che tornati nella loro città d’origine, ha avuto un riflesso fondamentale sulla loro arte, che non è più riuscita a liberarsi degli assemblaggi di carne e metallo. L’estetica Dada, soprattutto di quello berlinese, si nutre di apparati meccanici e mutilazioni, raccontate piratando le strategie dei mass media che sono allo stesso tempo il loro bersaglio d’elezione e lo strumento più efficace per diffondere il loro dissenso. La tecnica del collage e del fotomontaggio serve perfettamente lo scopo: l’assemblaggio di parti eterogenee gli permette infinite ipotesi di riconfigurazione di un corpo in frammenti, senza rinunciare all’appeal di un manifesto pubblicitario. L’immaginario bellico all’epoca è così pervasivo che entra anche nello storytelling del movimento: “Dada è stato una bomba” ha dichiarato più tardi Max Ernst “Immagina che qualcun*, circa mezzo secolo dopo l’esplosione di una bomba, cerchi di raccogliere i frammenti e incollarli insieme per poterli esporre”. Dada in sostanza fagocita tutto ciò che combatte cercando di farsi esplodere.
Con questa idea in mente lo stesso Max Ernst compone pezzo per pezzo l’immagine della sua donna ideale: un manichino storpio buttato in una vasca di metallo, con un guardaroba di lamiere e bulloni. I pezzi di Anatomia come sposa sono fotografie ritagliate dai giornali, una tavola anatomica per la nuova epoca cyborg. Nel timore che l’effetto non sia abbastanza realistico, quando ha finito Ernst fotografa il collage per dare l’impressione di aver immortalato una persona vera. La via delle nozze l’aveva già presa anche Marcel Duchamp a New York, con un’opera ben più celebre La Sposa messa a Nudo dai suoi Scapoli, Anche meglio conosciuta come Il Grande Vetro. Qui una non troppo avvenente donna insetto si spoglia provocando il desiderio di nove scapoli a forma di cilindri antropomorfi. L’operazione innesca una forza elettromagnetica che si immagina in grado di attivare i congegni di un macina caffè: un’allegoria uomo-macchina da far invidia alle donne pistone del collega Francis Picabia.
Max Ernst, Anatomia come sposa, 1920.
Max Ernst, Anatomia come sposa, 1920.
Max Ernst, Anatomia come sposa, 1920.
Otto Dix, Invalidi di guerra, 1920.
Otto Dix, Invalidi di guerra, 1920.
Otto Dix, Invalidi di guerra, 1920.
Ma il Dada di Berlino fa molto di più che concepire il corpo come una macchina disfunzionale. Lo dichiara chiaramente Raoul Hausmann con la sua Testa Meccanica (Lo Spirito del Secolo): il cranio vuoto di un manichino con imbullonati sopra una serie di oggetti scelti con cura come il pezzo di un metro da sartoria, congegni di orologio e manopole avvitate sulle tempie, a simulare organi supplementari di controllo del pensiero. Questo assemblage da solo riesce a rievocare la disillusione dell’artista verso il governo tedesco, le indagini sui meccanismi psichici di Freud, le macchine per abitare di Le Corbusier, il Fordismo e gli effetti collaterali della prima rivoluzione industriale.
Nel 1920 la macchina quindi pervade già tutto, è integrata in una più vasta realtà esistenziale che plasma in continuazione la stessa percezione dell’Io. E in tutto questo il corpo ha un ruolo centrale. Nello stesso anno la rivista Dada 3 pubblica un collage intitolato: “Daum” sposa il suo pedante automa “George” nel maggio 1920. John Heartfield ne è molto contento, dove George Grosz si ritrae affianco della futura sposa in un interno preso in prestito da De Chirico. L’artista è un fantoccio meccanico in giacca e cravatta in piedi accanto ad una succintissima Eva Peter, che nonostante le apparenze presto sarebbe effettivamente diventata sua moglie. Grosz si incolla sul petto una specie di pallottoliere meccanico, mentre un paio di mani gli ficcano nel cranio un nastro di numeri simile a quello già usato da Hausmann per la sua testa. Un modo per dire che, se non controlli la tua mente, la tecnologia lo farà per te. Impiantandosi dei congegni meccanici al posto dell’apparato fonatorio Grosz ci tiene quindi a sottolineare che le nuove tecnologie non modificano solo il corpo ma anche il nostro modo di pensare.
A questo punto l’ibridazione uomo-macchina sembrerebbe già sviscerata in tutte le sue più nefaste implicazioni, eppure l’artista che è riuscita a dare la più completa immagine di cyborg come identità componibile e multisfaccettata è stata una donna. Sopravvissuta a sette anni di relazione con Hausmann, cosa che ai tempi significava anche essere offuscata dalla sua ombra, Hannah Höch ha portato la tecnica del collage molto più lontano di tutti i suoi colleghi uomini: fino alle soglie del postumano. Il suo lavoro più celebre è un fotomontaggio con un titolo da fare invidia a quello di Grosz: Taglio con coltello da cucina Dada attraverso la pancia piena di birra della Repubblica di Weimar; un’opera complessa quasi come Il Grande Vetro, così densa di riferimenti a fatti di cronaca, attualità e personaggi politici, che l* storic* dell’arte per analizzarla di solito prendono le ferie.
All’interno di questo delirio troviamo almeno due immagini di cyborg, localizzate circa in alto a destra: quella di Hausmann appeso per la testa, innestata grossolanamente su una tenuta da sub, e quella del suo più acerrimo nemico, il kaiser Guglielmo II, che sembra espellerlo dal deretano. La composizione traduce in immagine la visione di Hausmann dell’uomo moderno: qualcosa a metà strada tra un mostro e un alieno, una combinazione allucinata di elementi contraddittori, immerso in una realtà che non è altro che un campo di forze plasmato dai mezzi di comunicazione. Il corpo dell’imperatore prende forma da una moltitudine di elementi eterogenei che spaziano da frammenti di testo a congegni meccanici, abitacoli, strade affollate, indumenti, corpi senza testa e teste senza corpi. Una sintesi perfetta di devastazione e rigenerazione che è già andata oltre i concetti di genere, specie, organico e inorganico, bello e inguardabile.
Ma dove Höch vince tutto è nell’impiegare l’estetica cyborg per rappresentare l’identità femminile post-bellica, un concetto che nella Repubblica di Weimar era in piena trasformazione. Armata di colla e forbici, Hannah ha ipotizzato nuove forme per la donna di domani, anche ben oltre lo scioglimento del gruppo Dada. In fotomontaggi dal titolo ingannevole come La ragazza bellissima, Dolcezza, Amore ecc., etnia, specie, sesso, età non sono più categorie immutabili, ma elementi infinitamente ricombinabili di un sistema fluido e caleidoscopico. Corpi femminili, animali e oggetti sono saldati tra loro in maniera non gerarchica e non lusinghiera, ma almeno meno caotica di prima. Nell’arte di Hannah Höch la donna “in carriera”, sessualmente liberata, la casalinga perfetta, la mogliettina fedele, la madre modello si incarnano nelle forme dell’arte asiatica e africana, dello Jugendstil e dell’Espressionismo combinate con i prodotti di consumo e gli stereotipi propinati dai giornali, dal cinema e dalla pubblicità in un risultato che è tutto tranne che rassicurante.
Non me ne voglia Donna Haraway, ma qui tutte le basi del manifesto ci sono già: il cyborg non è una fusione del corpo con la macchina, è l’annullamento delle distinzione tra i due.
Se le mutilazioni postbelliche e gli innesti uomo-macchina sono diventati la tua nuova passione ti consiglio questi testi per approfondire:
- Mattew Biro, The Dada Cyborg. Visions of the New Human in Weimar Berlin, University of Minnesota Press 2009
- Francesca Ferrando, A feminist genealogy of posthuman aesthetics in the visual arts, in Aloi G., McHugh, S., Posthumanism in Art and Science: A Reader, Columbia University Press 2021
- Elza Adamowicz, Eric Robertson (a cura di), Dada and Beyond: Volume 1: Dada Discourses (Avant-garde Critical Studies)