Berlinde de Bruyckere è una di quelle artiste che aiuta a capire perché il brutto nell’arte contemporanea non solo è inevitabile, ma anche necessario. Fino al 15 marzo alla Fondazione Sandretto Re Rebaudengo è in corso una mostra monografica curata da Irene Calderoni che mi permetterà di argomentare questo concetto. Il titolo è Aletheia, termine che porta con sé così tanti significati che personalmente lascerei perdere.
La stessa Berlinde si ferma a quello più ovvio, classico, del termine: verità come rivelazione, anche se sulle prime questo concetto non sembra avere niente a che vedere con quello che ti troverai di fronte: una serie di parallelepipedi fatti di quelle che da lontano sembrano coperte impilate una sull’altra, e da vicino strati di pelle, umana o animale, difficile a dirsi.
Ad un’analisi ravvicinata ti accorgerai, oltre che della presenza di una spiacevole peluria, che il materiale è impregnato, o forse fatto, di cera. Tutto questo cercherà di depistare la tua percezione di ciò che è autentico e ciò che non lo è, senza darti sufficienti elementi per propendere per una o per l’altra conclusione.
Alla ricerca del disvelamento promesso dal titolo, negli spazi della Sandretto assisterai a una fusione senza scarti tra le forme del minimalismo e le asperità della carne in decomposizione, accompagnata nella sala accanto da una serie di tableaux lignei che traducono l’idea dell’hortus conclusus medievale in grotteschi assemblaggi di resti animali e brandelli di tappezzeria a fiori.
Nell’ultima sala quelle che ormai sono inequivocabilmente pelli bovine riposano distese sopra una serie di pallet, coperte da uno strato di sale che, se nei mattatoi della provincia belga serve a rallentare la decomposizione, qui ha l’effetto di una coltre di neve lievemente adagiata su una fila di salme.
Il tutto sembra destinato a restare lì per sempre, sospeso nel tempo di una dolorosa contemplazione; etereo, pur in tutta la sua pesantezza organica; apparentemente grezzo, pur essendo meditato fino alla disposizione della più piccola piega. Alla violenza che ha separato l’animale dalla propria epidermide si è sostituito un senso di sacralità, condito da una strizzatina d’occhio all’Arte Povera che non fa mai male.
Una biografia un perché
Da quando ha iniziato a lavorare come artista Berlinde de Bruyckere ha scelto come unica fonte di ispirazione un tema che non potrà mai passare di moda: la morte. La morte e la paura che abbiamo, il modo in cui cerchiamo costantemente di evitarla, nonostante ci circondi da ogni dove e faccia irrimediabilmente parte di noi. Da allora questa artista ha inanellato una serie di memento mori di una bellezza disarmante, in cui l’angoscia va di pari passo con la seduzione.
Come spesso accade tutto diventa spiegabile quando si pensa alla sua biografia: nata e cresciuta a Gand, in Belgio, in una rigida istituzione di stampo cattolico in cui probabilmente l’escatologia – con tutto il suo accavallarsi di immagini di martirio e redenzione – era all’ordine del giorno, non c’è da stupirsi se nella sua produzione sacro e ripugnante siano quasi la stessa cosa.
Se si considera poi che Berlinde è anche figlia di un macellaio, allora questo dispiego di cadaveri appare non solo logico, ma perfino inevitabile. Di più, se Jana Sterbak, che non era figlia d’arte, è stata capace di cucirsi un vestito di bistecche di manzo e lasciarlo imputridire, che de Bruyckere abbia passato una vita a imbalsamare equini è il minimo sindacale.
Tutto ciò non ci impedisce comunque di rimanere a bocca aperta davanti alle sue sculture: saggi agonizzanti di iperrealismo, carcasse impagliate, calchi di animali riprodotti nei minimi dettagli, come il Black Horse della Biennale di Venezia del 2003, un cavallo senza occhi servito in pasto al pubblico sopra un tavolo di legno e acciaio inox.
Tra carcasse animali e figure antropomorfe la carne ferita è decisamente al centro dei suoi trent’anni di carriera, congelata in uno stato di grazia appena prima della putrefazione grazie al medium della cera. Spesso le sue creature sono esposte all’interno di armadi a vetri come curiosità ottocentesche; a volte gli arti sono sostituiti da rami d’albero dalla texture altrettanto organica e deturpata.
Una collezione di anatomie incerte tra l’informe e qualcosa di anche troppo familiare, che però si contraddicono quando un braccio sembra trasformarsi nel tronco di un albero, germinato quasi dal corpo stesso, come in Marthe, del 2008, una sorta di metamorfosi di Dafne venuta male, o nei volti coperti dalla chioma lunga e penitente di una Maria Maddalena in decomposizione.
In ‘20 (2007) una figura è indubbiamente umana, l’altra indubbiamente no, ma nessuna delle due ha la testa, quindi è di nuovo difficile dire con esattezza di cosa stiamo parlando. In ogni caso una cosa è subito chiara: la storia dell’iconografia cristiana e della scultura permeano come una suggestione mistica ognuno di questi lavori.
Episodio scatenante per la serie di ostaggi invece – composta da brandelli di umanità che spuntano da pesanti coperte di lana – sono state le immagini dei morti di fame in Somalia, della guerra del Kosowo, delle stragi in Ruwanda, e delle decine di cadaveri abbandonati ai bordi delle strade.
Come quelli africani questi corpi sono relitti di carne con le vene a vista, cianotici e sensuali nel loro realismo perturbante; icone senza volto, quindi universali. La coperta, simbolo di protezione e atto di misericordia, buttata sui corpi di Berlinde rivela tutta la sua ambiguità: un oggetto ipocrita che nasconde l’orrore alla vista e toglie alle vittime l’identità e la possibilità di parlare.
In brutto veritas
Dopo il cristianesimo e i genocidi la terza ispirazione di Berlinde sono i Fiamminghi e le loro raffinate pale d’altare, di cui mantiene soprattutto il mood cianotico e gli arredi, i tappeti in particolare, cosa che date le sue origini è come dire giocare in casa. Gli stilemi del Nordeuropa sono così strutturali nel suo lavoro che anche negli strati di pelle dei parallelepipedi di Aletheia è facile vedere le pieghe dei drappeggi delle madonne di Van Eyck.
Come ha dichiarato in una delle sue interviste, per Berlinde l’unico modo di creare qualcosa di nuovo è partire da qualcosa che esiste già. La pelle scuoiata di Aletheia vale quindi come segnaposto per l’uomo; la cura con cui è impilata e conservata è un atto di compassione verso un destino comune ad ogni essere vivente.
E se stando in piedi a contemplare i pallet dell’ultima sala hai avuto la sensazione di trovarti in un campo santo hai visto giusto, perché quello che l’artista vuole fare è convogliare tutta la sofferenza e le emergenze umanitarie dei nostri tempi in un mucchio di materiale organico.