L’Antropocene è l’era geologica in cui viviamo, caratterizzata dall’infelice impronta che la razza umana ha impresso sull’ecosistema che gli ha dato i natali. Ormai ne abbiamo sentito parlare in tutte le salse, e siamo ben consapevoli di quanto siano limitate le risorse del pianeta e di come presto rischieremo di trovarci alle strette, messi in ginocchio dalla nostra stessa tardiva sensibilità ambientale, tra uno scioglimento dei ghiacciai e una plastificazione dei mari.
Fin qui nulla di nuovo sotto il sole, ma il mondo dell’arte, della scienza e del design stanno già cominciando a guardare oltre, nel caso in cui, ottimisticamente parlando, la specie umana riesca a scongiurare l’estinzione e ad adattarsi con la sufficiente flessibilità a condizioni di vita radicalmente mutate.
Il design speculativo in particolare, con la sua vocazione a risolvere problemi reali e non soltanto velleità consumistiche, è ai primi posti nell’affrontare queste tematiche da vari punti di vista, tra cui quello del guardaroba che saremo costretti ad indossare. Analizzando alcune di queste ricerche emerge che la domanda “oggi cosa mi metto” nel post-Antropocene potrebbe assumere risvolti inaspettati.
1. Posthuman Habitats di Foreground Design Agency
Probabilmente una delle prime criticità che dovremo affrontare quando l’Antropocene sarà poco più che un ricordo saranno la scarsità di acqua, cibo e terreno coltivabile, rese ancor più critiche da una condizione di nomadismo e migrazione. Quale soluzione migliore quindi che portarsi il proprio nutrimento con sé? Foreground Design Agency, uno studio transdisciplinare di Los Angeles che fa speculazioni in bilico tra arte e architettura del paesaggio, ha progettato allo scopo dei pratici ecosistemi indossabili, capaci di fornire all’uomo tutti gli elementi di cui ha bisogno per restare in vita, senza costringerlo a radicarsi in un luogo specifico.
Nel più totale sprezzo di dualismi come natura/cultura, uomo/pianta e praticità/senso estetico i Posthuman Habitats mostrano come il corpo umano sia perfettamente in grado di comunicare con l’ambiente circostante in un felice interscambio di sostanze chimiche e fisiche: gli scarti corporei manterranno in vita le piante, che a loro volta produrranno il cibo di cui il corpo ha bisogno. Protetto da questi gilet verdeggianti – habitat ideale anche per insetti e piccoli animali – l’uomo potrà sperimentare finalmente la connessione con la natura che ha sempre cercato.
2. Human Sensor di Kasia Molga
Se l’inquinamento atmosferico è già un problema oggi, possiamo immaginare cosa sarà tra qualche decina di anni. Allora monitorarne l’entità potrà forse essere determinante anche solo nella scelta di dove andare a cena. Per sopperire a questa necessità l’artista Kasia Molga ha collaborato con un gruppo di ricerca del King’s College di Londra per progettare delle mantelle indossabili dalla texture origamiforme. Corredati da una mascherina alla Dart Fener, gli Human Sensor si caricano dell’ingrato compito di rendere visibile il livello di inquinamento dell’aria in tempo reale.
Trasformando il corpo umano in un’interfaccia trapuntata di LED questi dispositivi si illuminano non appena captano tracce di PM2, con cromie, intensità e intermittenze diverse a seconda delle quantità rilevate. Kasia ha presentato il progetto all’Ars Electronica di Linz e da allora è solita illustrare le potenzialità delle sue creazioni con bizzarre performance in giro per le strade inglesi.
3. Amphibio di Jun Kamei
Se sul fronte dell’aria sembra di essere coperti, resta ancora aperta la questione di come l’uomo potrà adattare il proprio corpo ad un’eventuale vita sommersa causata dal riscaldamento globale. Studi scientifici prevedono che già per il 2100 l’innalzamento del livello dei mari porterà sott’acqua le grandi città delle aree costiere, rendendo problematica la sopravvivenza di più del 30% della popolazione. La questione è stata affrontata di petto dalla designer giapponese Jun Kamei con Amphibio, un set di accessori che aiutino i malcapitati ad integrarsi all’elemento liquido, realizzato in collaborazione con il Royal College of Arts.
Mascherina e collare insieme costituiscono una sorta di branchie in stampa 3D capaci di captare ogni minima molecola di ossigeno presente nell’acqua e di volgerla a favore di chi le indossa. Questo progetto mette a frutto anni e anni di studi sulle proprietà idrorepellenti degli insetti subacquei traducendole nel design minimale ed elegante di una sedia di Panton. Purtroppo però, l’invenzione per ora resta unicamente dimostrativa: a detta della stessa Kamei, per sopperire al reale fabbisogno di ossigeno di un essere umano questi oggetti dovrebbero avere l’estensione di un monolocale. creando a quel punto un’altra serie di problemi.
4. BioCouture di Suzanne Lee
Dalla biomimesi alla BioCouture il passo sembra abbastanza breve, così altre interessanti innovazioni nel settore dell’abbigliamento arriveranno dal mondo organico che ci circonda, e in particolare dai batteri. Sulla stessa linea del progetto anti-traspirazione di Lining Yao i microorganismi arrivano in nostro soccorso anche nella linea di abbigliamento di Suzanne Lee. Al grido di “I microbi sono la fabbrica del futuro” questa giovane designer e ricercatrice londinese crea abiti coltivando muffe, alghe e funghi, convinta che nel futuro il tessuto che andrà per la maggiore sarà un crogiolo di batteri capaci di vivere in simbiosi con il corpo umano.
Posizionati in appositi liquidi di coltura questi microorganismi vanno incontro a un processo di fermentazione producendo la Combucha, una cellulosa simile a cuoio che Suzanne trova ottima per realizzare giacche e scarpe di dubbio gusto. Tutto questo entusiasmo non è dovuto solo alle loro proprietà fisiche, ma anche alla possibilità che prospettano di ridurre a zero l’impatto ambientale della fashion industry. Gli abiti infatti non sono solo biodegradabili, ma addirittura compostabili, quindi potremo finalmente buttarli senza sensi di colpa quando passeranno di moda. Resta solo da chiedersi se, nel momento in cui l’ecosistema sarà ormai completamente distrutto, tutto questo avrà ancora importanza.
5. Mushtari di Neri Oxman
Oltre a permetterci di coltivare abiti in casa i batteri potranno venirci in soccorso anche nell’ottimizzazione delle risorse disponibili che caratterizzerà la nostra vita nello spazio. In che modo l’ha dimostrato la celebre Neri Oxman con una collezione chiamata Wanderers: an Astrobiological Exploration dedicata ad una condizione tipicamente umana, quella del nomadismo. Tra tutti il pezzo più significativo è Mushtari, un esemplare di design che tradisce la sua funzione: un unico canale di 58 metri in stampa 3D attorcigliato su sé stesso a guisa di mutandone, che agisce come una sorta di intestino supplementare.
All’interno del tubo colonie di microbi protosintetici – principalmente microalghe e cianobatteri – prosperano captando la luce solare per produrre zuccheri e convertirli in pigmenti, medicinali, energia e quant’altro. Questo underwear, realizzato in collaborazione con il Mediated Matter Group del MIT Media Lab, è pensato per dare il suo meglio soprattutto a gravità zero, agevolando i processi di sintesi delle sostanze nutritive di cui l’uomo avrà bisogno per sopravvivere su altri pianeti.
Nel complesso la collezione offre corsetti e busti di diversi colori e diversa densità di materiale, ciascuno calibrato sull’approvvigionamento nutritivo specifico di ogni pianeta del sistema solare. Come i colleghi di cui sopra, Oxman è convinta che il futuro dell’abbigliamento passi per la creazione di abiti potenzianti, capaci di annullare la distinzione tra l’uomo e l’ambiente in un interscambio più vantaggioso.
6. Digital Artifacts di Bart Hess
In un compendio sull’abbigliamento postumano una riflessione sulla cyborg couture non poteva mancare. In questo senso una delle opere meglio riuscite, sia dal punto di vista concettuale che da quello estetico, mi sembra il progetto che Bart Hess ha concepito nel 2013 in occasione della Triennale di Architettura di Lisbona, romanticamente a cavallo tra analogico e digitale. I suoi Digital Artifacts sono modelli realizzati in maniera artigianale immergendo i corpi nudi di performer sospesi da un braccio robotico in una vasca di cera liquida che viene poi lasciata aderire e solidificare, e infine esposta come creazione autonoma.
Il risultato è del tutto simile ad un glitch, l’alterazione imprevedibile tipica dei software, che qui si applica alla pelle modificandone la forma e la consistenza, un’ossessione che Bart coltiva da molto tempo. Venendo da un presente in cui siamo ipersorvegliati, monitorati e scansionati, dove ogni centimetro del nostro corpo è registrato e catalogato, il futuro che auspica Bart Hess è un posto in cui il glitch verrà addomesticato e usato come ornamento e strumento di resistenza, e in cui gli esseri umani saranno diventati finalmente irriconoscibili.