Ecco, ci risiamo: maggio è alle porte e con lui lo spettro della prova costume, le insalatone, le corse al parco e la doppietta MiArt – Milano Design Week. Tra i vari rimedi fai da te poche cose aiutano ad eliminare i chili in eccesso come la settimana dell’arte milanese, con il suo mix letale di fiere ed eventi diffusi in tutta la città. Se poi come me hai un lavoro e vieni da fuori, l’effetto snellente sarà perfino potenziato, dal momento che dovrai concentrare tutto nel weekend.
Memore di anni passati a trascinarmi tra i vari Design District con caviglie sanguinanti e shopper in cotone rigenerato, quest’anno ho lasciato perdere il Fuorisalone per concentrarmi solo sul MiArt e gli eventi collaterali.
Per affrontare tutto questo in soli tre giorni è stato necessario stendere un piano di attività bilanciato. La prima cosa che ho fatto dopo aver scartato l’idea di assumere un personal trainer è stata prendere nota di tutti gli eventi che, per ragioni che spaziavano dallo spessore scientifico del team curatoriale a impeti puramente sentimentali, mi sembravano qualcosa a cui non potevo mancare.
Per ognuno ho appuntato date, orari e luoghi, e dopo aver incrociato questi dati con le mie aspettative di vita e le previsioni meteo sono riuscita a crearmi un calendario abbastanza dignitoso che mi ha permesso di sopravvivere fino a domenica sera.
Al grido di “DO NOT TRY THIS AT HOME” ecco tutto quello che sono riuscita a vedere.
Ipervisualità. Quando l’invisibile diventa visibile
Palazzo Dugnani, 4 aprile – 14 aprile 2019
Partenza soft per questa maratona che voleva essere un mix di conferme e nuove scoperte. Delle due Ipervisualità è stata una scoperta, e a dire il vero proprio niente male. Palazzo Dugnani già da solo varrebbe una visita per i suoi affreschi: all’interno è tutto un Tiepolo in un tripudio di nuvole, putti e svolazzi Rococò; aggiungici alcune chicche di videoarte e l’ingresso gratuito e puoi farti un’idea di cosa ti sei pers*.
Ecco quindi una serie di opere dalla Collezione Wemhöner firmate da Masbedo, Julian Rosefeldt, Isaac Julien e Yang Fudong. La mostra spiegava che questi artisti sono accomunati soprattutto da due cose: l’uso del video in chiave poetica e la tendenza a sfidare le nostre capacità percettive mostrandoci ciò che di solito non vediamo, altrimenti detto “ipervisibile”.
Così, al suono di un giradischi scheggiato con una straziante Imagine in loop dei Masbedo, Julien tentava di materializzare il concetto di capitale monetario attraverso una proiezione a doppio canale e quattro storie di vita vissuta che ti portavano a rispondere che si stava meglio senza vederlo.
Mentre un giovane indiano portava a spasso un pavone per le sale della Galleria Sabauda torinese alla scoperta degli antichi maestri (sempre opera dei Masbedo), le New Women di Yang Fudong si rimiravano nei loro schermi-budoir come raffinati pezzi d’arredamento, e i gangster coreografati da Rosefledt si fronteggiavano in un porto mercantile a passo di danza.
Anna Maria Maiolino. O Amor Se Faz Revolucionàrio
PAC, 29 marzo – 9 giugno 2019
Il PAC continua indisturbato a tentarmi con la sua rassegna di monografiche sulle grandi artiste latine firmate da Diego Sileo. Questa volta è stato il turno di Anna Maria Maiolino, un’artista che è diventata un’istituzione per opere come E’ quello che resta (dalla serie Fotopoemazione).
La mostra ripercorre il percorso a ritroso, dalle masse filiformi e vagamente organiche degli ultimi anni alle prime performance femministe. I pezzi sono tanti e tutto sommato equilibrati, tra nuova produzione e quella più datata.
Nel mezzo, ampio spazio è dato anche alle serie di disegni e alle sculture che testimoniano la passione di Maiolino per la manipolazione, tanto quanto il suo amore per la pasta fatta in casa. L’atto di impastare è il retaggio delle origini italiane dell’artista, un’attività meticolosa e rituale che coinvolge tutto il corpo, e che per tutta la vita ha cercato di riprodurre lavorando l’argilla cruda invece che uova e farina.
La sera era in programma anche una performanceintitolata Al di là di e molto simile a IN ATTO, quella realizzata sempre a Milano nel 2015, per la Galleria Raffaella Cortese. Al PAC il grosso lo faceva una giovane nerovestita a cui Maiolino, ormai canuta e ricurva, affidava una matassa di tessuto rosso sangue, confermando questi colori come un trend insuperato della performance art.
Con questa semplice coreografia, che simboleggiava il rapporto tormentato tra due generazioni, le due donne sono state capaci di farmi venire i brividi. In generale comunque l’effetto collaterale di questa mostra sembra essere quello di farci capire che la prima produzione dell’artista è molto più significativa della seconda.
Broken Nature. Design takes on human survival
Triennale di Milano, 1 marzo – 1 settembre 2019
Una bella esposizione dedicata a come l’arte e il design stanno tentando di risolvere i danni che l’uomo ha causato al pianeta. Ok, all’estero se ne parla da almeno cinquant’anni; ok, è un evento gonfiato a livello mediatico perché la curatrice Paola Antonelli viene dal MoMA; ok, dì quello che vuoi ma una cosa del genere qui davvero ci voleva e, a prescindere da opere che chi è cresciuto a pane e critical design ha sicuramente già visto in altre sedi, è comunque un evento a cui è fondamentale andare anche in veste di comune mortale.
Data la vastità del tema comunque il rischio bazar è sempre dietro l’angolo, e spesso si scivola in quello spiacevole effetto horror vacui da esposizione universale che alla seconda ora di permanenza in effetti comincia un po’ a pesare. Per quanto mi riguarda comunque i tutorial di Alex Honnold che arrampica a mani nude sono stati molto utili per affrontare l’impresa con il giusto spirito.
Al di là di questo i progetti esposti – un mix di pezzi di design, opere d’arte, progetti di architettura ed esemplari che potrebbero essere tutte e tre le cose – sono oggettivamente puro ossigeno cerebrale. La mostra è da vedere sia per le tematiche su cui queste opere riflettono (e a cui cercano di dare una soluzione), sia per la qualità della ricerca a monte del progetto curatoriale.
Per mesi e mesi la Antonelli ha girato il mondo a caccia di designer e creativ* ispirazional*, e l’ha poi girato di nuovo per presentare la mostra in vista dell’inaugurazione. Io ho avuto la fortuna di intercettarla in Belgio, a margine di un festival di new media art, e non dimenticherò mai la passione con cui l’ho vista raccontare le ricerche del* artist* selezionat*. D’altra parte, come mi sono spesso sentita dire nei lavori sottopagati che ho fatto in passato: “queste cose le fai perchè ci credi, se no faresti un altro mestiere.”
Suddivise per nuclei tematici corrispondenti ai problemi del pianeta (ora capisci cosa intendevo per vastità) si susseguono opere che affrontanotemi come la biodiversità, le migrazioni, i rifiuti elettronici, lo scioglimento dei ghiacciai, con una prospettiva che non ti lascerà delus*, ma soltanto più consapevole.
La Nazione delle Piante
Triennale di Milano 1 marzo – 1 settembre 2019
Con grande sollievo per i miei piedi La Nazione delle piante si trova sempre alla Triennale, nel cuore di Broken Nature. Nonostante l’arte abbia già dato molto nell’argomentare la relazione dell’uomo con i vegetali, qui l’approccio artistico si fa da parte per abbracciare il punto di vista di un fisiofitopatologo, che per chi non lo sapesse è una figura che esiste veramente, vive in università e si occupa di studiare i comportamenti delle piante. Il curatore quindi è Stefano Mancuso, e se hai la passione per il giardinaggio lo avrai sicuramente già sentito nominare.
In mostra le sue teorie prendono la forma di installazioni specchianti e grafici 3D in un modo che è tutto fuorché accademico, e ha quindi scongiurato il rischio di essere noioso. In più l’argomentazione di base non potrà che affascinarti: le piante a quanto pare non solo sono degli esseri viventi a tutti gli effetti, ma sono anche molto più intelligenti di noi.
Per dimostrare che non si tratta di animismo spiccio Mancuso propone una serie di fatti curiosi a sostenere questa tesi, capaci di ridimensionare di molto la sensazione di superiorità della razza umana sulle altre specie. Lo sapevi ad esempio che le piante comunicano tra loro? Sapevi che sono capaci di cooperare per raggiungere uno scopo? Sapevi che probabilmente ci sopravviveranno? Se non lo sapevi non importa, qui imparerai tutto quello che ti serve per rivalutare la condizione di vegetale e convincerti che da arbusti e radici abbiamo molto da imparare.
Ibrahim Mahama. A Friend
Caselli daziari di Porta Venezia, 2 aprile – 14 aprile 2019
Qui, lo ammetto, ho barato spudoratamente perchè in programma avevo Surrogati all’Osservatorio della Fondazione Prada, ma A Friend era di strada. Oltre a questo, dopo Broken Nature ho capito che per sopravvivere era indispensabile non solo bere alcol tra una tappa e l’altra, ma anche variare le attività e, perché no, magari stare anche un po’ all’aria aperta ogni tanto.
Questo intervento era comunque un eventone, ma da diversi anni ormai la Fondazione Trussardi ci sta deliziando con la sua formula di disseminarearte contemporanea su qualche architettura simbolo della città meneghina. Dopo il cinema Manzoni, la Stonhenge gonfiabile dell’anno scorso e molte altre iniziative ad alto tasso di imprevedibilità, quest’anno la furia virale della maison non ha risparmiato nemmeno i bastioni di Porta Venezia.
L’intervento è curato da Massimiliano Gioni e firmato dall’artista ghanese Ibrahim Mahama, e in sé non è nuovo per due motivi:
1) è stato già presentato a Documenta di Kassel due anni fa
2) sì, lo so, è identico a quello che faceva Christo
La somiglianza non è celata ma anzi voluta, per piegare l’impacchettamento a tematiche sociali e globali come la circolazione degli esseri umani e delle merci, la prima sempre più difficoltosa della seconda. Non a caso, l’imballo è fatto tutto di sacchi di juta e ha coinvolto una struttura che un tempo era una porta della città, un punto di confine e di interscambio con il resto del mondo.
Whether Line
Fondazione Prada, 6 aprile – 5 agosto 2019
Oltre alla mostra che non ho visto mio malgrado all’Osservatorio (una rassegna di progetti fotografici dedicati alle varie forme d’affetto per le bambole in silicone) per la settimana dell’arte la Fondazione Prada ha sfoderato un altro pezzo da novanta: una personale di Lizzie Fitch e Ryan Trecartin, da anni impegnati a trasformare il video in una bulimia di immagini e cortocircuiti culturali di ogni tipo.
In questo caso un consiglio che mi sento di darti è di non andare a vedere questa mostra se non conosci bene gli artisti. Se proprio ti attrae spendi prima un po’ di tempo a cercare qualcosa su internet, perché così a stomaco vuoto la loro estetica ipertrofica può risultare difficile da digerire.
Arrivati in loco si tratta di accedere in uno spazio deputato della Fondazione attraverso una struttura di metallo sonorizzata che fa sentire un po’ come cavie in gabbia. Uscito da lì verrai sputato negli spazi del Deposito, in esplorazione di un’installazione multimediale creata appositamente per la mostra, ma girata in Ohio in mezzo al fango e ai campi di pannocchie.
Per rafforzare il senso di estraniamento bucolico e la critica al mito del ritorno alla terra che sono i temi centrali di questo lavoro, i video sono presentati all’interno di una casetta american style in legno e lamiera, che è poi la riproduzione semplificata di quella in cui Fitch e Trecartin hanno soggiornato durante le riprese, sedie a dondolo incluse.
La mostra è accompagnata anche da un programma di proiezioni dei film prodotti dal duo nel corso della loro collaborazione, rssegna che io però non sono riuscita a vedere. Cose che capitano, quando hai la brillante idea di andare a visitare il tutto nelle due ore di apertura serale gratuita durante l’Art Week.
Il Soggetto Imprevisto. 1978 Arte e Femminismo in Italia
FM Centro per l’Arte Contemporanea, 4 aprile – 26 maggio 2019
Chiudere in bellezza con l’ultima fatica curata da Marco Scotini. Dopo un lavoro di ricerca costato parecchio sudore, ecco una delle migliori mostre in città, che riunisce dei pezzi fenomenali e soprattutto esemplificativi di un’epoca cruciale: quella degli anni ’70 e del femminismo in Italia. Le opere, oltre ad essere tante, sono spiegate così bene che alla fine ti sembra di uscire dai Frigoriferi come una persona migliore, arricchito di conoscenze che prima non avevi e senza che ti venisse fatto alcun male.
Il Soggetto Imprevisto si concentra in particolare sul 1978, anno in cui si sono verificati alcuni eventi nevralgici come: l’inaugurazione alla Biennale di Venezia di una mostra tutta al femminile, con esposte ben ottanta artiste desiderose di rivendicare il proprio posto nel mondo dell’arte ufficiale; la pubblicazione di “Taci, anzi, parla. Diario di una femminista”, un testo di Carla Lonzi che oggi è una pietra miliare, e l’approvazione della legge sull’aborto.
Attraverso una selezione di documenti d’archivio e le opere di un centinaio di artiste tra cui Ketty La Rocca, Clemen Parrocchetti, Tomaso Binga, Maria Lai, Carol Rama e potrei continuare per delle ore, questa mostra riesce a mettere in luce le relazioni tra pratiche artistiche e movimento sociale e femminista. Risulta che entrambi si sono articolati attorno a due poli principali: il corpo e il linguaggio; il primo da risignificare e liberare dallo sguardo maschile, il secondo da reinventare di sana pianta.
Per raccontare questa storia la mostra passa in rassegna diversi media: dalla fotografia alla mail art, dal collage ad assemblaggi, video, performance, libri d’artista, e si chiude con una sala dedicata alle opere delle colleghe europee, dove non potevano mancare delle pietre miliari come Genitalpanik di Valie Export, il sangue mestruale di Carolee Schneemann e l’Azione Sentimentale di Gina Pane.
Arrivata a questo punto era domenica sera e ho chiuso bevendo una bottiglia e mezzo di bianco a stomaco vuoto per poi svegliarmi il giorno dopo con il mal di testa che meritavo. La considerazione è doverosa: ha senso vedersi sette mostre in tre giorni? La risposta, incredibilmente, è sì.