In questo clima primaverile fatto di feti di gomma, rigurgiti omofobi e manifestazioni di piazza, c’è un’oasi felice negli spazi della GAMeC di Bergamo, dove è in corso una mostra che dà molti spunti su cui riflettere, primo tra tutti il fatto che con la liberazione sessuale abbiamo cantato vittoria troppo presto.
Nello specifico Io Sono è una retrospettiva che ci porta in Austria, a cavallo tra gli anni ’60 e ’70, e ripercorre per nuclei tematici tutte le sfaccettature dell’opera di Birgit Jürgenssen, un’artista tanto interessante quanto poco valorizzata, legata a doppio filo alla temperie femminista della prima ondata.
Il titolo è preso in prestito da un’opera del 1995, Ich bin, una lavagnetta con gessetto e spugnetta per cancellare su cui si leggono semplicemente queste due parole, che in questa veste minimalista si propongono come un’autorivendicazione che tutte le donne ogni tanto dovrebbero ricordarsi di fare.
A livello di allestimento la prima sala presenta subito una difficoltà: tutte le opere sono esposte ad altezza bambino, quindi se hai più di dieci anni ti arriveranno circa alle ginocchia. L’idea nasce dal fatto che la primissima produzione di Birgit è essenzialmente grafica, tutta dedicata alle illustrazioni di libri per l’infanzia. Contorsionismi a parte, questa sala si gioca i primi due assi nella manica: l’autoironia e una precoce infatuazione per Picasso, con i quali Birgit conquista subito la simpatia del visitatore.
Picasso a quanto pare le piaceva così tanto da cambiarsi il nome in Bicasso Jürgenssen, come provano alcuni dei suoi quaderni delle elementari esposti nella stessa sala. Per il resto, le sue prime opere si distinguono soprattutto per una spiccata vena comica, già sottilmente anti-specista e anti-patriarcale, e vedono umani e animali impegnati in strani riti di corteggiamento.
Al piano superiore la mostra continua con L’après-Midi, che testimonia la precocità di Jürgenssen anche con i nuovi media. Qui l’artista tenta di piegare il video alla causa degli stereotipi di genere, creando un film che è impossibile vedere mangiando pop corn. Il video è girato posizionando una telecamera al centro della stanza e facendola ruotare ininterrottamente su sé stessa: lo spaesamento si moltiplica non appena l’obiettivo incontra la figura di Birgit, che appare ogni volta truccata e travestita in maniera diversa, pur restando sempre seduta nello stesso punto.
Le sale successive mostrano invece quello che tutti ci aspettavamo di vedere, ovvero la sua produzione fotografica da autodidatta, fatta di donne intrappolate dietro vetri di plexiglas o dentro larghi grembiuli a forma di forno a gas (con tanto di pagnotta appena sfornata), e di pezzi di corpi decontestualizzati ed edulcorati dal fascino sempiterno del bianco e nero. Queste immagini mostrano tutto dell’artista eccetto il viso, tagliato o coperto da maschere tribali: una presa di posizione contro l’oggettivizzazione del corpo femminile di cui le donne cominciavano a prendere coscienza proprio in quegli anni.
Tra tutte spicca un’opera del 2001, che è poi la rielaborazione digitale di una fotografia degli anni ’70: si intitola Zebra (2) e mostra il mezzo busto dell’artista ibridato appunto con questo animale. La mutazione è resa in modo tale da mantenere gli elementi umani ed equini sempre e comunque riconoscibili e distinguibili l’uno dall’altro, ma allo stesso tempo parte di una nuova unità, a metà strada tra un essere mitologico e un outfit di Lady Gaga.
In questa unità la Jürgenssen credeva tanto che le curatrici le hanno riservato una sezione intera, sezione che dal mio punto di vista è anche il momento più interessante di tutta la mostra. Qui si trovano disegni e collage che propongono nuove iconografie in cui un ramo si sviluppa dalla cassa toracica di uno scheletro animale, una foglia si posa sul petto di una figura umana come un cuore supplementare, e un grembo femminile accoglie un nido con delle uova.
Di fronte ad opere come queste, capaci di toccare sia il tema della comunione con le specie animali e vegetali sia la riduzione del corpo femminile a mero contenitore di una vita nascente, diventa impossibile negare a Birgit Jürgenssen un ruolo pionieristico nel capire quello di cui il resto dell’umanità si è accorta solo decenni più tardi, e cioè che la materia vivente, per secoli divisa tra umana e non umana, è in realtà intimamente legata e connessa.
Nelle opere degli anni ’70 e ’80 donna e animale vengono associati in un modo diverso da quello a cui le cronache ci hanno abituati, resi intercambiabili in quanto compagni dello stesso destino di sfruttamento. Oltre alle fotografie, un espediente che Birgit ha usato per comunicare questo messaggio sono le scarpe. Qui l’artista rischia di cadere su uno degli stereotipi più classici del sesso femminile – quello della dipendenza compulsiva da calzature – ma si riscatta subito convertendo questo oggetto del feticismo in qualcosa di improbabile e mostruoso.
Ecco quindi alcuni esemplari delle sue creazioni: sandali a forma di calesse, decolleté a forma di rapace piumato, sabot simili a guaine di carne che sorreggono un feto; oggetti che non hanno nulla da invidiare a una fashion week. E poi sandali per il viso e tacchi per i gomiti o per le natiche, protuberanze che da sostegni diventano protesi, appendici desideranti del corpo femminile.
Accanto a queste chicche il percorso non manca di sottolineare le influenze dell’artista, e in particolare le correnti a cui si è ispirata. Oltre alla cotta per Picasso, un’altra avanguardia ha conquistato il cuore di Birgit, e non poteva essere altro che il Surrealismo. Tracce di questa liason sono visibili in una serie di fotografie su tela in cui il gemellaggio donna-oggetto viene declinato affiancando donne vestite da unicorno a immagini di abat-jour, fiori, o di una ruota dentata.
Le stampe sono avvolte da un velo di satin che conferisce al tutto una sensualità materica, creando un gioco snervante tra illusione e realtà. Meno emozionanti invece le pitture su carta ispirate all’espressionismo “psicofisico” di Maria Lassnig, a cui Jürgenssen aveva fatto da assistente all’Università di Arti Applicate di Vienna. L’esito è una serie di corpi squagliati che faticano a rimanere insieme ma non aggiungono forse nulla di più a quello che la collega aveva già espresso così bene.
Nei suoi vagabondaggi mediatici Jürgenssen non ha risparmiato nemmeno le Polaroid e le proiezioni, e l’ultima sala spiega bene a cosa mi riferisco mostrando alcuni esiti di questa ricerca. Una serie di fotografie documenta la proiezione di strisce a fumetti e vecchi cortometraggi sul corpo dell’artista; una di queste inquadra un ombelico circondato da un cerchio di luce con sovraimpressa la scritta “fine”, un cortocircuito tra la funzione generatrice del luogo più sacro del corpo femminile e l’inevitabilità di una parola che non lascia più spazio ad un piano B.