Qualche settimana fa a Milano forse qualcuno di voi è capitato allo Studio Giangaleazzo Visconti, e se l’ha fatto sicuramente se ne ricorda. In corso c’era la prima personale italiana di Juno Calypso, un’artista che ha uno stile tanto riconoscibile quanto instagrammabile. Qui venivano esposte una serie di fotografie capaci di associare il rosa patinato delle pubblicità degli assorbenti alle atmosfere post-apocalittiche di Minority Report, un’estetica a cui ci hanno già abituato diversi mesi di produzioni Netflix.
Giovane e già affermatissima, con un’inguaribile passione per i travestimenti declinata in autoritratti nei panni di una casalinga ossessionata dall’autoconservazione, se c’è un’erede diretta di Cindy Sherman (ma anche di Jeff Wall e Gillian Wearing) quella è proprio Juno Calypso. Il suo trasformismo si nutre di un narcisismo stucchevole e patinato, che al femminismo violento e incazzato della tradizione oppone un velo di fard e di ironia non per questo meno pungente.
Juno Calypso nasce e cresce a Londra con un’interesse precoce per la fotografia, esploso in tenera età grazie alla macchina fotografica del Game Boy. Dopo aver sperimentato con il mezzo camuffandosi da personaggio dei cartoni animati, abbandona il sogno di diventare un’attrice e capisce che travestirsi e farsi autoritratti è tutto quello di cui ha bisogno.
Si iscrive quindi al London College of Communication per studiare fotografia. Fin dai primi anni di liceo però da segni di comportamenti particolari creandosi un alter ego chiamato Joyce, una bambola bionda o rossa all’occorrenza, accuratamente demodé, capace di sembrare più finta degli oggetti che le stanno intorno. Con il suo sex appeal di plastica Joyce risponde perfettamente al desiderio di Juno di: “fare fotografie perfette di ragazze perfette”.
Per vestire Joyce, Juno frequenta assiduamente i negozi dell’usato in cerca di costumi e arredi di scena, che indossa nell’intimità del suo appartamento combinandoli con un armamentario di prodotti da far impallidire l’Estetista Cinica: maschere elettriche antirughe, maschere per la pelle, fasce tonificanti, ciglia finte, lozioni idratanti, vestagliette rosa e riviste di moda.
Juno Calypso, Seaweed Wrap, 2015
Juno Calypso, Seaweed Wrap, 2015
Juno Calypso, Seaweed Wrap, 2015
Juno Calypso, Reconstituted Meat Slices, 2013
Juno Calypso, Reconstituted Meat Slices, 2013
Juno Calypso, Reconstituted Meat Slices, 2013
Juno Calypso, 12 Reasons You’re Tired All The Time, 2013
Juno Calypso, 12 Reasons You’re Tired All The Time, 2013
Juno Calypso, 12 Reasons You’re Tired All The Time, 2013
Nel 2012 con Popcorn Venus, Joyce è una bionda che sbuca da una torta di panna a due strati, il viso si vede, ma ci sono altri dettagli che turbano la scena. Occhiali enormi, incisivi sporporzionati, non è esattamente avvenente a guardarla bene. Strano perché l’ispirazione sembrava felice: la scena della Famiglia Addams in cui una torta con la spogliarellista viene messa in forno.
Ecco cosa succede quando si mescola femminismo e humor nero: ti ritrovi di fronte una Barbie che ti fissa con lo sguardo storto. Tre anni più tardi, fingendosi una scrittrice in viaggio per terminare un romanzo, Juno decide che è arrivato il momento di portare Joyce fuori dalla sua stanza in un viaggio per l’America con tappa nel Penn Hills Resort, un hotel per lune di miele e coppie in crisi da curare con una sana dose di kitsch.
Qui affitta una stanza in cui ritrarsi al centro di set allestiti con la cura maniacale di una scenografia cinematografica, per studiare il tema della femminilità artefatta in cui siamo costrette per attirare il desiderio maschile. Immagini come The Honeymoon suite, Eternal beauty, Slendertone e The First Night trasformano il rito della cura del corpo in un film di David Lynch.
Eroina del proprio isolamento, Joyce si riflette in decine di specchi, si rannicchia in vasche idromassaggio a forma di cuore come in una cavità uterina, donna solitaria i cui sogni non si sono mai realizzati, si ricopre di fanghi ed emerge dalla schiuma come un mostro degli abissi. Vittima della sua stessa autoconservazione, vive in un’eterna beauty routine, senza mai mostrarsi allo sguardo maschile per cui si prepara.
Il suo volto è intrappolato in massaggiatori vibranti e guaine di silicone, moderni simboli di martirio, rendendola più simile ad un Hannibal Lekter che a una Venere contemporanea – anche se, a pensarci bene, forse in fondo sono la stessa cosa. La serie in questione è passata alla storia come The Honeymoon, e nel 2016 si è guadagnata il premio del British Journal of Photography.
Juno Calypso, The Honeymoon Suite, 2015
Juno Calypso, The Honeymoon Suite, 2015
Juno Calypso, The Honeymoon Suite, 2015
Juno Calypso, Eternal Beauty, 2014
Juno Calypso, Eternal Beauty, 2014
Juno Calypso, Eternal Beauty, 2014
Stanca degli hotel a ore, oggi Juno è passata ad esplorare una reclusione più radicale: quella dei bunker antiatomici. Dopo essersi imbattuta in quello di Gerry Henderson (fondatore della marca di cosmetici Avon) costruito negli anni ’70 sotto il cortile di casa per scongiurare la minaccia nucleare e poi occupato da un collettivo di scienziati dediti a pratiche per perseguire l’immortalità, ha deciso di farne il set di una nuova serie di fotografie.
Lì dentro Juno ha passato tre giorni della sua vita a immortalarsi tra lampadari di cristallo e sanitari in marmo rosa, circondata da un giardino sotterraneo con tanto di piscina e piante sintetiche. Il prodotto di questa esperienza si intitola What to do with a million years, che è una domanda che la razza umana a un certo punto forse si dovrà fare. Le immagini sono accompagnate da una zine in edizione limitata che raccoglie saggi e riviste sulla crioconservazione e altri dettagli sui precedenti proprietari del bunker.
Dopo giorni chiusa in trappola l’ultimissima fatica di Juno Calypso denota il ritorno ad una dimensione rilassante di benessere: ecco quindi The Salon, un’installazione immersiva che ricrea un salone di bellezza con arredi ispirati ai film dell’orrore. In questo luogo immaginario distopia ed estetica cyborg convivono amabilmente, nonostante il tutto cerchi di sembrare il più realistico possibile.
A questo scopo l’artista ha curato ogni dettaglio: luci al neon, profumo di miele e disinfettante nell’aria, canzoni d’amore in sottofondo, cercando di portare tutti gli elementi all’estremo, ma giusto un pelo prima della totale assurdità. In mezzo a tutto questo stavolta al posto di sé stessa ha piazzato una sua copia in silicone, non più sola ma circondata da anonimi clienti in forma di manichini metallizzati.
A suon di maschere luminose e lettini abbronzanti The Salon dà alla cura della bellezza l’aspetto di un nuovo culto in cui è impossibile sentirsi a proprio agio: uno specchio perfetto della sua santificazione nella cultura contemporanea.