Lo scorso aprile, vagando per il Fuorisalone della Milano Design Week in cerca di un chioschetto che facesse frittura di pesce, mi sono imbattuta nell’opera di una giovane artista della Central Saint Martins School di Londra che si chiama Nina Cutler. La sua specialità è costruire narrazioni che coniugano design e altre discipline per riflettere sulle criticità delle nuove tecnologie e sul loro impatto culturale.
A Milano Nina esponeva la sua ultima opera: una testa robotica con un parrucchino e un paio di baffi accompagnata da una fotografia dello stesso robot in abito da cerimonia, a braccetto di una raggiante nonnina vestita da sposa. Titolo: Help, my mother is getting married to her Carebot!, alla faccia di chi storce il naso se il nonno scappa con la badante. Quest’opera mi ha fatto subito tornare in mente una serie di qualche anno fa, Äkta människor (Real Humans nella traduzione inglese), che aveva per protagonisti dei robot assistenti chiamati hubot. Progettate e commercializzate per supportare le famiglie nella cura della casa e nell’assistenza agli anziani, queste macchine erano repliche perfette degli esseri umani, con l’unica differenza che invece di mettersi a tavola si attaccavano alla presa di corrente.
Com’è facile immaginare, la convivenza tra umani e umanoidi si articolava in una climax di fraintendimenti e perplessità, che metteva continuamente in crisi la linea di confine tra macchine ed esseri senzienti. Tutto questo sfociava anche in complesse relazioni sentimentali, in cui gli umani erano coinvolti a vari livelli: dal rapporto sessuale all’amore platonico. Mentre macinavo episodi questa serie a sua volta mi ha fatto ripensare a un film famosissimo, Her, di Spike Jonze, in cui Joaquin Phoenix è coinvolto in una storia d’amore con la IA che vive nel suo sistema operativo. Nonostante Philip Dick sia la loro ispirazione indiscussa, queste distopie sembrano mettere a dura prova il suo scetticismo sulla possibilità di un legame erotico tra organico e inorganico, prospettando invece un futuro in cui l’androide sarà qualcosa che saremo finalmente in grado di amare.
Pausa pranzo per gli hubot di Real Humans
Pausa pranzo per gli hubot di Real Humans
Pausa pranzo per gli hubot di Real Humans
Uno dei fotogrammi più inflazionati di Lei (Her) di Spike Jonze.
Uno dei fotogrammi più inflazionati di Lei (Her) di Spike Jonze.
Uno dei fotogrammi più inflazionati di Lei (Her) di Spike Jonze.
Sebbene stabilire quale di queste due posizioni ci abbia preso sia ancora prematuro, l’importante è continuare a farsi questa domanda. La produzione di robot umanoidi non è solo un’espressione del narcisismo umano e del progresso tecnologico, ma anche uno specchio che ci spinge a ripensare il concetto stesso di umanità. Costringendoci a interagire con delle repliche quasi perfette le nuove tecnologie ci offrono l’occasione di studiarci dall’esterno e di capire molto di noi stessi, a partire dal nostro rapporto con l’alterità. Come se non bastasse l’Intelligenza Artificiale sta facendo passi da gigante nel riconoscimento delle emozioni, e le macchine che ci circondano stanno sviluppando un’empatia inedita, che permette a loro di capire quello che proviamo e simulare una risposta in maniera sempre più credibile, e a noi di sentirci finalmente compresi. Quando guardiamo su Youtube una delle tante interviste a Sophia, la IA di ultimissima generazione prodotta da Hanson Robotics, è impossibile non avere in grande stima il modo in cui chiude la bocca ai giornalisti e investitori di tutto il mondo.
Per il momento però i settori in cui i robot umanoidi sembrano avere più probabilità di successo nel prossimo futuro sono l’industria del sesso e la cura degli anziani. Nel primo caso stiamo già assistendo ad una massiccia produzione di bambole gonfiabili in versioni sempre più realistiche e customizzabili della donna dei sogni, frutto della felice unione tra IA e silicone. Sull’altro versante invece è stimato che l’invecchiamento progressivo della popolazione richiederà sempre più leve in questo ambito e in quello dell’assistenza sanitaria domicilio, un’altra situazione in cui il senso di abbandono e solitudine potrebbe facilmente portare ad affezionarsi anche al proprio tostapane. Al di là di fantasiose deviazioni, è molto probabile che la convivenza con i nostri alter ego robotici porterà ad un rovesciamento della dialettica servo-padrone che ha monopolizzato il rapporto tra l’uomo e la macchina dall’alba dei tempi. In previsione di questo momento, artist* come Nina Cutler stanno ipotizzando scenari in cui la nostra relazione con il non-umano sia più distesa e costruttiva.
Molt* di loro in questo momento espongono a Eindhoven, in una mostra collaterale alla Dutch Design Week chiamata Robot Love, che cerca di identificare che ruolo avrà l’amore in un’era di silicio e macchine intelligenti. Chi avrà la fortuna di visitarla si troverà davanti ad una serie di opere che stemperano le ossessioni apocalittiche di Elon Musk e Raymond Kurzweil in un mondo d’amore ed empatia reciproca. Se si escludono l’installazione di Hito Steyerl Hell Yeah We Fuck Die – che senza girarci intorno ci ricorda che spesso la tecnologia è sopravvalutata – e qualche altra eccezione, le opere qui raccolte si concentrano tutte sulle diverse sfaccettature dell’affetto robotico. L’orientamento della mostra è evidente fin dalla locandina, che ritrae inMoov – il primo robot umanoide open source in stampa 3D della storia, creato dallo scultore designer Gael Langevin – come una sorta di Madonna con Bambino della quarta rivoluzione industriale. inMoov è un composto di plastica e microprocessori Arduino in scala 1:1, replicabile in casa da chiunque ci veda del potenziale.
Sophia in una delle sue tante apparizioni in tv
Sophia in una delle sue tante apparizioni in tv
Sophia in una delle sue tante apparizioni in tv
Gael Langevin, inMoov, immagine della mostra Robot Love a Eindhoven
Gael Langevin, inMoov, immagine della mostra Robot Love a Eindhoven
Gael Langevin, inMoov, immagine della mostra Robot Love a Eindhoven
Se questa immagine non fosse già abbastanza di impatto, ci pensa l’installazione di Adams Ponnis a togliere ogni dubbio, avvolgendo l* visitator* nell’abbraccio caldo di una superficie tattile dall’aspetto organico. L’opera si chiama Enter Aliveness ed è il progetto di laurea che Ponnis ha realizzato per la Design Academy di Eindhoven, figlio di una cieca fiducia nella possibilità di stabilire nuove relazioni e interscambi tra superfici naturali e ambiente costruito. Il risultato riesce a farci percepire un materiale sintetico e mosso da un congegno ad aria compressa come qualcosa di vivo con cui cercare un contatto. Un effetto simile lo produce anche APP(E)AL(ING), di Lianne Van Roekel, un’installazione interattiva tutta votata allo scambio sensoriale ed emotivo tra ciò che è umano e ciò che non lo è. Per farlo l’artista si serve della tecnologia delle interfacce tattili, ovvero di superfici inorganiche che permettono alle persone di interagire con un computer sulla base di sensazioni e movimenti corporei. Cosa accada in questo caso lo scopriranno solo l* visitator* più temerar*, che si avventureranno a toccare le sculture qui sotto.
All’interno del percorso espositivo c’è un’altra installazione che mostra come possa essere gratificante il contatto fisico con un robot. Si tratta di Tickle, di Erwin Driessens & Maria Verstappen: un salone per massaggi dove ci si può accomodare e godere dei benefici dei minuscoli dispositivi progettati per passeggiare sulla nostra pelle come insetti, ma creando un’intensa sensazione di piacere. Tutto questo appagamento però non deve farci dimenticare che una relazione affettiva è un composto di dare ed avere, e che il vero amore non è mai completo se non è corrisposto. Se un giorno ce ne dovessimo scordare, ci penseranno le macchine a farcelo notare. Come? Magari semplicemente dicendocelo, come fa PIP, il chatbot di Ine Poppe che flirta con chiunque prospettando un futuro in cui Siri ed Alexa inizieranno a parlarci d’amore. Se a questo punto anche tu vuoi provare l’ebrezza di essere corteggiat* da una IA non ti preoccupare: non c’è bisogno di andare ad Eindhoven, puoi parlare con PIP direttamente qui.
Adams Ponnis, Enter Aliveness, 2018
Adams Ponnis, Enter Aliveness, 2018
Adams Ponnis, Enter Aliveness, 2018
Lianne von Roekel, APP(E)AL(ING), 2018
Lianne von Roekel, APP(E)AL(ING), 2018
Lianne von Roekel, APP(E)AL(ING), 2018
Driessens & Verstappen, Tickle Salon 2.0, 2018
Driessens & Verstappen, Tickle Salon 2.0, 2018
Driessens & Verstappen, Tickle Salon 2.0, 2018
Mentre l’opera di Poppe analizza il lato piacevole del corteggiamento, Annelies, Looking for Completion si configura invece come una drammatica richiesta d’aiuto. L’opera è la creazione del duo L.A. Raeven, due gemelle già di per sé inquietanti, dedite a performance che mettono alla gogna l’ansia di perfezione e l’individualismo della società in cui viviamo. Per l’occasione le artiste presentano un androide che è una replica perfetta di loro stesse, rannicchiato in un angolo dello spazio espositivo in uno stato di abbandono, ma pronto ad animarsi per chiedere attenzioni a chi gli si avvicina. Morale della favola: clonarsi non è il modo migliore per combattere la solitudine.
L’unica risposta a questo atavico bisogno d’affetto è forse il video del collettivo Army of Love, chiamato appunto Love and Robots. Il corto è stato girato a Cuba coinvolgendo persone di diverse età ed estrazioni sociali per dimostrare come in un futuro in cui, come si dice, i robot si occuperanno di tutto il lavoro sporco, l’essere umano potrà finalmente dedicarsi a diffondere amore.
Ine Poppe, Talking to PIP, 2018
Ine Poppe, Talking to PIP, 2018
Ine Poppe, Talking to PIP, 2018
L.A. Raeven, Annelies, Looking for Completion, 2018
L.A. Raeven, Annelies, Looking for Completion, 2018
L.A. Raeven, Annelies, Looking for Completion, 2018