Siamo alla Berlinale del 2017, sezione Panorama: è una giornata come tante nel consueto affastellarsi di proiezioni del festival; i cinefili e gli addetti ai lavori hanno già sviluppato le consuete forme di disturbi associativi e licantropia.
Tutto ad un tratto viene presentato un film intitolato Pieles (Pelle in italiano). Si tratta del primo lungometraggio di Eduardo Casanova, un giovanissimo regista spagnolo che non voleva andarsene prima di bloccare la digestione a tutti i presenti in sala. Il film inizia in un interno, un uomo madido di quel sudore a metà tra il panico e l’eccitazione siede di fronte a una signora anziana, in un ambiente zuccheroso e patinato a metà tra un bordello e la casa di Barbie. Lui è vestito, lei è completamente nuda, ad eccezione di un filo di trucco e degli stiletti di piume.
Li separa soltanto un tavolino basso, sul quale sta appoggiato un volume con la copertina rosa, stucchevole come qualsiasi altra cosa in scena. Lei sfoglia le pagine scorrendo profili di giovani ragazzini affetti da malformazioni, come una sorta di album di famiglia dell’orrore da offrire a quello che si capisce subito essere il suo acquirente. L’uomo tentenna, è sfuggente, accampa qualche scusa, fa per andare via. Si asciuga le palme sui pantaloni. Gli spettatori in sala sono tramortiti dal cortocircuito tra la perfezione della fotografia e l’aberrazione di quello che ci accade dentro.
Nel complesso, la costante unica di questa pellicola è la deformazione. Attraverso iperboliche contorsioni di pelli e tessuti, ciascun personaggio è portatore sano di un aspetto disturbante e mostruoso che lo relega ai margini più remoti della società.
Diverse storie si avvicendano e si intrecciano nel corso del film, rese ancora più spiacevoli dalle atmosfere alla Wes Anderson, e dal fatto che ogni personaggio ha un’emotività inequivocabilmente umana con cui è d’obbligo empatizzare. Nonostante il grottesco sia dietro l’angolo e l’opera proceda in bilico sul baratro del disgusto fine a sé stesso, quella che pone è una domanda fondamentale: la bruttezza salverà il mondo? La risposta è no, però continuerà a giocare un ruolo cruciale.
La perfezione non è perfetta
Dagli stessi presupposti del film di Casanova è nata una mostra che sta per inaugurare alla Science Gallery di Melbourne: si intitola Perfection, ma non ha nessuna intenzione di esaltare quest’ultima come un valore assoluto. La mascotte è una nostra vecchia conoscenza, il Graham di cui parlavo in questo articolo, ovvero un prototipo di essere umano con la struttura corporea ideale per uscire illeso da un incidente d’auto.
Con quest’opera l’artista Patricia Piccinini pone subito un problema: la perfezione non è oggettiva. L’anatomia riprogettata per sopravvivere non soddisfa i canoni estetici attuali. Perché Graham, diciamolo, sarà anche perfetto dal punto di vista strutturale, ma a prima vista è semplicemente un mostro. E allora in questi casi come ci dobbiamo comportare?
La Piccinini non è l’unica che se l’è chiesto. Più di una ventina di artisti hanno risposto alla call lanciata dal team curatoriale con lavori altrettanto spiazzanti che mixano arte, scienza, tecnologia, matematica e manipolazioni genetiche. La speranza è quella di capire come trovare un equilibrio tra la perfezione sterilizzata di Instagram e l’imperfezione conclamata del mondo in cui viviamo.
Bisturi, algoritmi e palloni gonfiati
Tra le opere esposte non mancheranno i video delle operazioni di chirurgia estetica in cui Orlan si è imbarcata per anni, nell’atroce obiettivo di trasformarsi in un ibrido tra la Venere di Botticelli, Monna Lisa e Santa Teresa. L’impresa partiva dal presupposto che la pelle che abitiamo raramente ci corrisponde, e che rientra nei diritti umani tentare di rimediare.
Questa idea si è sostanziata in una serie di performance che mescolano suggestioni frankensteiniane alla teoria classica del bello come somma di parti, dimostrando che il silicone non serve solo ad alzarsi gli zigomi. Trasportato sulla carne a suon di bisturi e lustrini, l’effetto non è certo quello che ci si poteva aspettare, e conferma che la perfezione come metodo non è sempre una buona idea.
Da allora il diritto di scegliersi una forma ha fatto passi da gigante, sia nel mondo dell’arte che nei laboratori di genetica. Oggi, grazie ai prodigi del CRISPR-Cas9, chi è scontento del suo aspetto ha a disposizione tecniche molto meno invasive per perfezionarsi: è sufficiente intervenire sui geni, all’occorrenza anche in tempo reale.
Su questo aspetto ha riflettuto Adam Peacock con un progetto chiamato Genetics Gym SS18, che è un gioiellino di design speculativo. Il tutto prende la forma di un video che fantastica su cosa potrebbe fare al proprio corpo l’essere umano se avesse la possibilità di modificarlo a piacimento. Sullo schermo, cinque modelli scelti dall’artista cambiano forma ogni cinque minuti, incarnando cinque diversi modelli estetici e sociali.
Sotto gli occhi attoniti degli spettatori, i corpi si modificano secondo le aspirazioni della contemporaneità, fornendo una versione empirica e tangibile dei condizionamenti che ci plasmano a livello inconscio.
Accanto a questi esperimenti segnanti, il pezzo forte della mostra sarà un salone di bellezza allestito ad hoc da Lucy McRae. All’interno di un’installazione futuristica, uno specchio biometrico (Biometric Mirror è il nome dell’opera – da non confondere con il Black Mirror di Netflix, anche se il passo è breve) sarà il corrispettivo sci-fi dello specchio delle mie brame.
Ad essere sinceri McRae non ha creato tutto questo dal nulla: un programma del genere era già stato sperimentato dal Microsoft Research Center dell’Università di Melbourne con risultati a dir poco stranianti, per non parlare delle metamorfosi di FaceSwap o Face Changer, a cui migliaia di giovani si sottopongono quotidianamente.
Al fianco di scienziati e sviluppatori, McRae ha trasformato un esperimento poco riuscito in un’occasione per riflettere sui limiti dell’intelligenza artificiale e su quanto sia rischioso affidarsi ciecamente a questi sistemi. Facce plastificate e innaturali dall’aspetto alieno dimostreranno ancora una volta che la perfezione matematica si traduce nella realtà in qualcosa di non desiderabile.
Allora a questo punto non è meglio rinchiudersi nei social, dove tutti viviamo alla luce riflessa di avatar soddisfacenti e corpi invidiabili? Ebbene no, anche questa non è una soluzione. Ant Hamlyn spiega perché con The Boost Project, un’installazione interattiva che non è altro che un globo gonfiabile capace di espandersi ed emettere suoni e luci a LED ogni volta che su Twitter o Facebook riceve un like, o viene nominata.
L’idea che un gigantesco pallone gonfiato possa fare da metafora all’appagamento e al narcisismo dell’uomo di fronte alle manifestazioni di consenso sui social network è ironica e inquietante, ma soprattutto non fa una piega. L’opera di Hamlyn è la chiosa perfetta di questa esposizione, e della condizione esistenziale in cui viviamo: tutti vogliamo essere perfetti, ma nessuno sa cosa voglia dire.