Fino al 4 Novembre a Palermo è in corso la dodicesima edizione di Manifesta. Qual è il periodo migliore per visitarla? Come in tutte le biennali la risposta è soggettiva. Io ho scelto la fine di giugno, adottando il sistema che usavo a Venezia: evitare i giorni di chiusura per quella sorta di malinconia da fine dei saldi, ed evitare il vernissage per la congestione molestissima di addetti ai lavori. Escludendo anche i due mesi di fuoco di luglio e agosto, ti consiglierei settembre o ottobre, che tanto Palermo, si sa, è splendida in qualsiasi stagione.
Ma prima delle considerazioni pratiche, facciamo un passo indietro.
Manifesta fa di secondo nome Biennale Nomade Europea, e non è un caso. E’ nata ad Amsterdam nel 1993 con l’idea di creare un evento itinerante che si svolgesse ogni volta in una diversa città d’Europa. La città in questione non viene scelta solo per fare da contenitore, ma si cerca sempre un legame tra il suo contesto geo-sociologico e il tema dell’edizione che vi si terrà all’interno.
Questa formula ha lo scopo di sollevare domande e problematiche del territorio ospitante, e non si esaurisce in un evento mondano, ma mira ad andare un po’ più in profondità. Scordati quindi l’evento bisonte che viene calato dall’alto come un grande luna park mangiasoldi e poi se ne va senza lasciare tracce, l’idea di base in questo caso è proprio l’opposto: Manifesta ha un approccio critico e vuole innestare un germe di cambiamento positivo nelle città che incontra, coinvolgendo nell’organizzazione anche gli abitanti.
Detto fatto, attorno a queste peculiarità è stato costruito il concept della biennale, sia le tre sezioni principali – Garden of Flows, Out of Control Room e City on Stage – che tutti gli eventi collaterali. Per connettersi meglio al tessuto cittadino, Manifesta si è insediata nella città in modo capillare, andando ad occupare 20 palazzi storici, preferibilmente chiusi al pubblico da anni, e con soffitti e pavimenti sfondati.
L’Orto Botanico e il suo mix di specie secolari provenienti da ogni angolo del globo ha dato lo spunto per il titolo di questa edizione: Il Giardino Planetario. Coltivare la Coesistenza, che concettualmente si ispira a una metafora di Gilles Clément, filosofo e paesaggista francese che in tempi non sospetti paragonò il mondo ad un giardino e l’uomo al giardiniere che deve prendersene cura.
A proposito di Orto Botanico, fermiamoci un attimo e torniamo ad alcune considerazioni pratiche preliminari.
Visitare Manifesta12: prima di partire
Se sei del Nord non ti allarmare, non c’è bisogno di bardarti come per un safari in Sudan, a Palermo c’è esattamente la stessa temperatura che abbiamo noi, solo che lì è diecimila volte più sopportabile. Se sei già sotto il Po invece non hai nessun bisogno dei miei consigli (anzi, ti invito a darne agli altri nei commenti qui sotto!).
In ogni caso, se è la prima volta che metti piede in città non pensare di cavartela in un weekend: prendi ferie, molte ferie, molte più della sottoscritta, perché Palermo varrebbe almeno una settimana già di suo, e una volta lì decidere cosa sacrificare potrebbe diventare un’impresa impossibile.
Io avevo solo 4 giorni, quindi il mio piano di battaglia è stato rigoroso e pieno di privazioni: molte pause pranzo, no percorso arabo-normanno, no gita a Mondello, no mezzi di trasporto urbano. Per quest’ultimo motivo non ho idea di come sia servita, ma una cosa la so per certo: le varie sedi sono centrali e raggiungibilissime a piedi, quindi ti consiglio comunque questa opzione, così nel mentre potrai goderti quanto di meglio vicoli, street art corner, mercati del pesce, bucati stesi improbabili e motorini impazziti hanno da offrirti.
A tal proposito un ultimo consiglio: se hai il sonno leggero portati dei tappi, Palermo praticamente non dorme mai, e auto e biciclette sono attrezzati con impianti stereo che neanche all’Olimpico quando suona Vasco.
Infine, qualche consiglio di stile: immancabile shopper o zainetto capiente e cappellini di paglia – sia da uomo che da donna, specie nelle varianti a falde larghe un po’ glamour – sono un accessorio particolarmente apprezzato. Un tocco di olio secco, ideale per tutti i tipi di pelle, è invece consigliato da Ryanair, che a bordo cercherà di vendertelo più o meno ogni cinque minuti. (Sottotesto: se puoi, viaggia con Easyjet). Fondamentale: un antizanzare di fiducia con cui cospargersi prima di entrare nell’Orto Botanico.
Ma torniamo a noi.
Visitare Manifesta12: l’orientamento
Se da casa l’organizzazione di Manifesta ti sembra nebulosa e dispersiva non temere: non lo è più di altre biennali. Arrivato in loco però ti assicuro che sarà tutto più semplice di quello che sembra. Se rinuncerai a pianificare un percorso in anticipo, c’è però una cosa che devi fare prima di tutto: geolocalizzare il Teatro Garibaldi e fiondarti lì.
Qui troverai la biglietteria (i ticket come al solito vanno a giornate, studenti e autoctoni 10 euro per tutta la durata della biennale) e tutte le guide, mappe, cartine, volantini, cataloghi e adesivi che ti servono. Se hai a cuore la deforestazione c’è anche la possibilità di scaricare l’app gratuita di Manifesta12, fatta molto bene e sviluppata da WePush, dei miei amici palermitani che si occupano di design e innovazione sociale.
Una volta equipaggiato come meglio credi ti consiglio di uscire da lì, buttarti su un tavolino con una bella granita al limone e, cartina alla mano, iniziare a localizzare le varie sedi. Rilassati e prenditi qualche minuto per trovare il percorso che più rientra nelle tue corde. Anche se i tempi stringono, ti assicuro che saranno minuti ben spesi.
Manifesta12: la struttura
Già alla prima granita (magari accompagnata anche da un bel cannolo, perché no), ti accorgererai che Manifesta è organizzata così: programma principale, eventi collaterali e programma 5x5x5. Il tutto declinato in un sistema diffuso di mostre, video installazioni, performance, interventi urbani e progetti letterari.
Le sedi principali sono luoghi di rara bellezza: Palazzo Forcella De Seta, Palazzo Butera, Palazzo Costantino, Palazzo Ajutamicristo e lo splendido Orto Botanico a cui ti ho già accennato. La maggior parte delle opere è concentrata qui, mentre altrove troverai solo singole installazioni. Vale comunque la pena raggiungerle? Assolutamente sì.
Sugli eventi collaterali devi sapere una cosa: non tutti si svolgono dall’inaugurazione e fino al giorno di chiusura, ma in ogni caso si susseguono ininterrottamente. In qualsiasi momento tu voglia approdare sull’isola, alcuni si saranno già conclusi, altri ne staranno per inaugurare. Se non l’hai fatto prima, questo sarà il momento in cui scaricherai l’app.
Cosa vedere?
Cosa vedere in tutto questo? Anche in questo caso dipende dal tempo che hai a disposizione. Io ne avevo pochissimo, quindi mi sono orientata sulle mostre ufficiali e su alcuni collateral interessanti lungo la strada. Pensare tutto in base al percorso ti aiuterà moltissimo ad evitare di fare la fine di una pallina in un flipper. Qualsiasi scelta tu faccia tieni presente che stiamo parlando di una biennale, quindi mettiti il cuore in pace: nessun essere, vivo o inanimato, è mai riuscito a vedere tutto e/o a vivere abbastanza per raccontarlo.
Unica cosa che prescrivo tassativamente: non sognarti neanche di bypassare l’Orto Botanico. Che tu abbia o meno il pollice verde, sarà sicuramente un’esperienza indimenticabile. Anche se all’ingresso forniscono una piantina, ti consiglio di lasciarla lì e partire da solo alla ricerca delle opere nascoste nella vegetazione. Se poi non le troverai proprio tutte non importa, la qualità delle proposte non è così significativa, ma ti sarai comunque perso tra le specie di piante più incredibili della tua vita.
A discapito dell’horror vacui iniziale devo dire che in tre giorni il programma principale, incluse alcune delle proposte collaterali, è stato ampiamente abbordabile, con calma e con le dovute sieste al riparo dal sole pomeridiano. Le distanze sono percorribili e le sedi tutte sorprendenti e poco affollate, che è la condizione di visita che ti auguro di trovare sempre, nella vita.
Un’altra caratteristica preponderante di questa edizione di Manifesta sono le performance/processioni. Così azzeccate nel contesto palermitano che molte sono quasi passate inosservate. Personalmente non sono riuscita a vederne nemmeno una, ma durante il vernissage il programma era fittissimo e lo sarà anche nei prossimi mesi, quindi avrai molte occasioni per non fartele scappare.
Le opere in mostra invece sono circa 50, di cui 35 commissionate ad hoc e quindi esposte in prima assoluta. Sulla pagina Facebook ho postato una selezione di quelle che mi hanno colpito di più, tra cui lo studio di Forensic Oceanography, il ritorno alla natura di Melanie Bonajo, la mappatura dei bombardamenti aerei di Cristina Lucas e l’intervento dei Masbedo nell’Archivio di Stato, per fare qualche esempio.
Notevoli anche le interviste in chiave post-coloniale di Kader Attia e quelle di Erkan Özgen alle donne sequestrate dall’Isis; l’indagine sul sistema di comunicazione MUOS – attivato nella base militare della Marina americana a Niscemi, per gestire guerre a distanza – di Tania Bruguera e le piante parlanti di Uriel Orlow.
Tra i 5x5x5 mi permetto di segnalarti la presenza di Berlinde de Bruyckere, un’artista a me cara perché autrice di sculture angoscianti, che qui si cimenta con strutture non figurative fatte di legno e coperte strappate. Le opere creano un dialogo interessante con le pitture cinquecentesche di Francisco de Zurbaràn, che invece di solito dipingeva suore e nature morte. La location è la chiesa di Santa Venera Sulle Mura della Pace (giuro) e il tutto è organizzato dalla Galleria Continua di San Gimignano.
Sulle singole opere non entro nel dettaglio, ma in generale posso fare delle considerazioni: il trend comune dei progetti selezionati è il rilievo dato alla testimonianza, all’indagine e all’archivio, seguito a ruota da una forte inclinazione all’interdisciplinarietà. Molte opere si confondono con l’attivismo e la ricerca, e sono legate all’attualità, eppure riescono a stimolare un pensiero critico, anche a così breve distanza dagli eventi. Il tutto con alcune note di colore che non guastano mai, come i Peng!Collective che invitano a molestare i servizi segreti da una vecchia cabina telefonica e l’eco-queer del cinese Zheng Bo, che copula con le felci.
Tutto ciò fa di Manifesta qualcosa di più di una biennale d’arte per addetti ai lavori, lo rende un evento che si rivolge a tutti, perché si esprime in modo diretto e quasi “cronachistico”, toccando temi che tutti, almeno su Twitter, possiamo giudicare.
Ennesima macchina mangiasoldi?
Ho letto molte recensioni di giornalisti dalla penna facile che sono stati travolti dal vernissage e hanno fatto presto a gridare al solito luna park mordi e fuggi, invece tutto sommato credo che se ci andrai con calma nei prossimi mesi, che tu sia straniero o palermitano potrai davvero riuscire a cogliere nel dettaglio quanto sia diverso l’approccio di Manifesta, quanto si sia insediata in città con delicatezza e intelligenza, e quante energie abbia messo in moto.
Molti hanno attaccato l’evento per questa attualità di formati e di temi dicendo che strizzava l’occhio ad un certo tipo di corrente politica, altri si sono lamentati della bellezza della città che offusca le opere, della scarsa efficienza del transfer dall’aeroporto; altri ancora l’hanno accusata di non aver debellato la mafia e credo anche della fame nel mondo. Io non sono d’accordo con nessuno di loro. Ma se andrai giudicherai tu quali siano le questioni impellenti, e quelle di cui ha più senso parlare.
Qualsiasi versione tu abbia deciso di sposare, se ti senti di prendere posizione sulle sfide cruciali che la nostra civiltà sta affrontando – la crisi dei rifugiati, il cambiamento climatico, l’intelligenza artificiale, le aree pedonali – al momento Manifesta resta uno dei luoghi migliori per tentare delle riflessioni sulla rinegoziazione del nostro stesso concetto di civiltà.