In scena questa sera make up e denti rotti. Sigarette, lattine vuote e scarpe di vernice. Lenzuola sporche e dipendenze. E’ la Ballad of Sexual Dependence di Nan Goldin, un mix di lividi e di baci, vecchie canzoni, risate scivolate sul fondo dell’ultimo bicchiere.
Corse in macchina, colori saturi; il ritmo è veloce, come flash sparati nella notte, a illuminare un’iniezione sottocutanea di vita. Cruda, estrema, a volte ironica e disperata; raccolta in un drink abbandonato sul tavolo, in due silenzi identici ai bordi di un materasso stropicciato. Questa è la famiglia che si è scelta, la sua famiglia queer: una carrellata di intimità maleodoranti e struggenti momenti di tenerezza. Si parte con dei ritratti singoli, poi di coppia, giovan* amant*, giovan* armat*, travestit*, a letto, con una dose iniettata nel braccio. Chius* in una bolla di notti bianche ed eroina non sembrano accorgersi della nostra esistenza, oppure soltanto non gli interessa.
Dolore, perdita, desiderio; la vita pura così com’è, nel suo set, Goldin non spostava nemmeno una bottiglia. E per rimanerci dentro, per restarci aggrappata, l’unico modo era continuare a fotografare: sé stessa e tutti gli altri, se li fotografa resteranno per sempre. A guardarsi bucarsi nei club underground, proiettat* uno dopo l’altro nel freddo dei loro bagni vuoti e dei loro amplessi. Per loro aveva scelto anche la musica. Il risultato è uno slide show che ha la struttura tematica di un album di famiglia, la tensione narrativa di un lungometraggio. Una parabola che inizia in un interno borghese e finisce con l’alba su una strada vuota.
Con i suoi affetti chiusi stretti in decine di rullini Nan Goldin ha girato due continenti: con costanza, ha portato il suo cinema sgangherato in giro per l’America e l’Europa, ha costretto il suo mondo a sopravvivere, l’ha fissato su pellicola mentre l’AIDS se lo portava via. Il suo obiettivo era raccontare la verità, sempre. Raccontare quanto sia brutta e volgare, a volte, e quanto ne abbiamo disperatamente bisogno.
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