Fatma Bucak.
So as to find the strength to see.
6 marzo – 20 maggio 2018
a cura di Maria Centonze e Lisa Parola
Fondazione Merz – TORINO
Teresa Margolles.
Ya basta hijos de puta
28 marzo – 10 giugno 2018
a cura di Diego Sileo
PAC – Padiglione d’Arte Contemporanea – MILANO
I Santissimi. Rebirth
24 marzo – 19 maggio 2018
a cura di Eleonora Aloise, Carlo Maria Lolli Ghetti
White Noise Gallery – ROMA
KETTY LA ROCCA 80.
Gesture, Speech and Word
5 aprile – 3 giugno 2018
a cura di Francesca Gallo e Raffaella Perna
Padiglione d’Arte Contemporanea – FERRARA
Fatma Bucak. So as to find the strength to see.
Fatma Bucak è un’artista curda che fa una cosa difficilissima: nelle sue opere parla di politica e di questioni di estrema attualità. Nata in un paesino turco al confine con la Siria e figlia di una minoranza etnica, oggi ha 34 anni e vive tra Londra e Istanbul realizzando performance, video, fotografie e opere sonore che ci parlano di violenza di Stato, migrazioni, revisionismo storico e negoziazione di identità.
Alla Fondazione Merz di Torino ci sono installazioni site-specific e lavori che cercano di dare voce a vite e narrazioni tagliate fuori dalla Storia e a strutture socio-culturali alternative al potere dominante. Qualche esempio? 342 names: una moltitudine di nomi incisi uno sull’altro sopra una pietra litografica, che ricorda tutte le persone fatte sparire dopo il colpo di stato turco del 1980 sottoforma di scarabocchi illeggibili. Oppure Damascus Rose, metafora della condizione dei rifugiati: un letto di terra in cui sono stati trapiantati un centinaio di esemplari di rosa di Damasco, una specie rara ed antichissima che mostra come la guerra civile in Siria rischi di estinguere perfino i fiori.
Fantasies of violence infine riflette il rapporto conflittuale di Bucak con gli organi di informazione: decine di immagini di crimini violenti riprese dai giornali internazionali sono ridotte a puri segni astratti, incisi su 117 lastre di zinco ma poi ricostruiti sul retro attraverso una descrizione romanzata dell’accaduto.
Quella che vedete invece è un’opera che piace a me: una fotografia dalla serie Melancholia I, un tributo a Dürer che rilegge lo stesso concetto di malinconia attraverso il corpo, integrandolo nell’ambiente con scarso successo ma grande poesia.
Teresa Margolles. Ya basta hijos de puta
Per rimanere in tema di politica e attualità, al PAC – Padiglione d’Arte Contemporanea di Milano ce n’è quanta volete, ma offerta in maniera così intelligente e mirata che difficilmente potrete uscire da lì fischiettando come quando siete entrati. L’artista in mostra è Teresa Margolles, per intenderci quella che ad una Biennale Arte di qualche anno fa ha esposto una bandiera impregnata di sangue fuori da una finestra del Padiglione del Messico. Io l’ho conosciuta così e da allora non ne ha sbagliata una.
Su questa mostra dirò solo che inizia con un cuneo di ferro piantato nel muro e si chiude con un video intitolato Pička, termine comunemente usato dagli uomini croati per riferirsi a una donna (se ve lo state chiedendo sì, vuol dire proprio “figa”, tutto il mondo è paese); una ragazza in piedi su un palcoscenico vuoto ripete questa parola un numero infinito di volte, una per ogni violenza subita.
Tra queste due opere: gioielli incastonati con frammenti di vetro raccolti dai corpi delle vittime del narcotraffico, le vite in sordina dei transessuali di Ciudad Juarez e quelle delle decine e decine di ragazzine scomparse vicino al confine, sudari vaporizzati e una corda fatta con pezzi di filo preso da un obitorio di Guadalajara, usato per le autopsie delle vittime non identificate.
Una sorta di minimalismo forense che riesce a raccontare la violenza e il rimosso molto più di migliaia di pagine di giornale, e che dimostra come, nonostante tutto quel sangue esibito e spettacolarizzato che i media ci propinano ogni giorno, siano sempre e solo i dettagli ad arrivarci dritti allo stomaco.
KETTY LA ROCCA 80. Gesture, Speech and Word
Nel frattempo a Ferrara è in corso la XVIIa edizione della Biennale Donna, ospitata come di consueto dal Padiglione d’Arte Contemporanea e dedicata quest’anno ad un’artista che in Italia non era esposta da circa vent’anni. Qui bisognerebbe provare un po’ di vergogna, prima di tutto perché Ketty La Rocca era italiana, e poi perché è stata un’artista davvero eccezionale.
La mostra beneficia di prestiti da un po’ ogni dove: le opere arrivano dall’Archivio Ketty La Rocca di Michelangelo Vasta, dal Mart di Rovereto, dalla Quadriennale di Roma, da alcune collezioni private e perfino dalle Teche Rai. L’idea è di comporre un affresco delle serie più significative dell’artista, condite da progetti e materiali inediti e concentrate principalmente sul rapporto tra corpo e linguaggio verbale.
Il contesto è quello degli anni Sessanta e Settanta: mondo dominato dagli uomini, donne sinonimo di casalinghe e contraccettivi come fantascienza. In un quadro del genere anche un gesto può essere rivoluzionario, e al potenziale espressivo dei gesti La Rocca ha deciso di dedicare tutta la sua carriera. Contro la retorica propugnata dai media e tutti gli stereotipi del gentil sesso, l’artista ha realizzato performance, collage, cartelli, poesie e cortocircuiti semantici capaci di smascherare la comunicazione e l’identità in tutte le loro contraddizioni.
Lavori come Le mie parole e tu?, In principium erat (libro fotografico da cui poi è stato tratto Appendice per una supplica, il primo video in assoluto girato in Italia da una donna), Craniologie e Verbigerazioni l’hanno portata ad essere una star del nonsense, ma soprattutto una delle prime artiste italiane ad acquisire fama internazionale.