
Quattro mostre da vedere subito
Mentre vi scrivo, in giro per l’Italia ci sono alcune mostre interessanti che riflettono sull’umanità malandata del nuovo millennio tra politica, violenza, cortocircuti linguistici e mutazioni. Di pari passo con l’accelerazione tipica della nostra epoca, due su quattro chiudono la settimana prossima, ma voi non vi preoccupate: io sono la prova vivente che quattro mostre in una settimana si possono vedere.
Fatma Bucak. So as to find the strength to see.

Fatma Bucak è un’artista curda che fa una cosa difficilissima: nelle sue opere parla di politica e di questioni di estrema attualità. Nata in un paesino turco al confine con la Siria e figlia di una minoranza etnica, oggi ha 34 anni e vive tra Londra e Istanbul realizzando performance, video, fotografie e opere sonore che ci parlano di violenza di Stato, migrazioni, revisionismo storico e negoziazione di identità.
Alla Fondazione Merz di Torino ci sono installazioni site-specific e lavori che cercano di dare voce a vite e narrazioni tagliate fuori dalla Storia e a strutture socio-culturali alternative al potere dominante. Qualche esempio? 342 names: una moltitudine di nomi incisi uno sull’altro sopra una pietra litografica, che ricorda tutte le persone fatte sparire dopo il colpo di stato turco del 1980 sottoforma di scarabocchi illeggibili. Oppure Damascus Rose, metafora della condizione dei rifugiati: un letto di terra in cui sono stati trapiantati un centinaio di esemplari di rosa di Damasco, una specie rara ed antichissima che mostra come la guerra civile in Siria rischi di estinguere perfino i fiori.
Fantasies of violence infine riflette il rapporto conflittuale di Bucak con gli organi di informazione: decine di immagini di crimini violenti riprese dai giornali internazionali sono ridotte a puri segni astratti, incisi su 117 lastre di zinco ma poi ricostruiti sul retro attraverso una descrizione romanzata dell’accaduto.
Quella che vedete invece è un’opera che piace a me: una fotografia dalla serie Melancholia I, un tributo a Dürer che rilegge lo stesso concetto di malinconia attraverso il corpo, integrandolo nell’ambiente con scarso successo ma grande poesia.
6 marzo – 20 maggio 2018
a cura di Maria Centonze e Lisa Parola
Fondazione Merz – TORINO
http://www.fondazionemerz.org/
Ya basta hijos de puta. Teresa Margolles

Per rimanere in tema di politica e attualità, al PAC – Padiglione d’Arte Contemporanea di Milano ce n’è quanta volete, ma offerta in maniera così intelligente e mirata che difficilmente potrete uscire da lì fischiettando come quando siete entrati. L’artista in mostra è Teresa Margolles, per intenderci quella che ad una Biennale Arte di qualche anno fa ha esposto una bandiera impregnata di sangue fuori da una finestra del Padiglione del Messico. Io l’ho conosciuta così e da allora non ne ha sbagliata una.
Su questa mostra dirò solo che inizia con un cuneo di ferro piantato nel muro e si chiude con un video intitolato Pička, termine comunemente usato dagli uomini croati per riferirsi a una donna (se ve lo state chiedendo sì, vuol dire proprio “figa”, tutto il mondo è paese); una ragazza in piedi su un palcoscenico vuoto ripete questa parola un numero infinito di volte, una per ogni violenza subita.
Tra queste due opere: gioielli incastonati con frammenti di vetro raccolti dai corpi delle vittime del narcotraffico, le vite in sordina dei transessuali di Ciudad Juarez e quelle delle decine e decine di ragazzine scomparse vicino al confine, sudari vaporizzati e una corda fatta con pezzi di filo preso da un obitorio di Guadalajara, usato per le autopsie delle vittime non identificate.
Una sorta di minimalismo forense che riesce a raccontare la violenza e il rimosso molto più di migliaia di pagine di giornale, e che dimostra come, nonostante tutto quel sangue esibito e spettacolarizzato che i media ci propinano ogni giorno, siano sempre e solo i dettagli ad arrivarci dritti allo stomaco.
28 marzo – 10 giugno 2018
a cura di Diego Sileo
PAC – Padiglione d’Arte Contemporanea – MILANO
http://www.pacmilano.it/mostre/
Santissimi. Rebirth

Nella mostra di Teresa Margolles c’è esposta anche un’installazione fatta di enormi lettere al neon, prese da un vecchio club di Ciudad Juàrez; insieme compongono la parola”mundos ” e ci ricordano che esistono anche mondi diversi dal nostro. Uno di questi è quello dei Santissimi, il duo artistico composto da Sara Renzetti e Antonello Serra, che fanno un uso dell’anatomia umana a dir poco spregiudicato. La loro ultima mostra sancisce il trasferimento della White Noise Gallery in centro a Roma, che corrisponde anche ad un cambio di rotta nel programma espositivo, d’ora in poi giocato soprattutto sulle installazioni.
Quelle dei Santissimi sono una vera e propria celebrazione dell’ibrido e della capacità ricombinatoria della carne umana. In un tripudio di silicone i due artisti creano sculture allucinate fatte di membra assemblate male, esseri deformi ma sempre terribilmente antropomorfi, simboli di una condizione di indeterminatezza esistenziale in cui l’umanità non fatica a riconoscersi. Questa specie di bestiario comprende: corpi umani sospesi nella resina come fossili distopici; un trittico fatto di mosche; citazioni di Patricia Piccinini, e un autoritratto degli stessi Sara e Antonello (o di quel che ne resta) appollaiati sopra delle altalene.
Ma il pezzo più emblematico è sicuramente Mom, un semplice, gigantesco grumo di carne appeso al soffitto come una caciotta; così realistico che alcuni visitatori giurano di averlo sentito respirare. L’opera è potente perché insegna che forse non servono tratti umani per immedesimarsi in un materiale, e perché da sola spiega tutto il lavoro dei Santissimi, che stanno alla carne umana più o meno come Michelangelo stava al marmo.
In sintesi: anche se la sensazione è sempre quella di trovarsi di fronte a dei Ron Muek nostrani, questa mostra la consiglio anche ai più scettici perché l’ingresso è gratis, quindi vale sempre la pena tentare.
24 marzo – 19 maggio 2018
a cura di Eleonora Aloise, Carlo Maria Lolli Ghetti
White Noise Gallery – ROMA
http://whitenoisegallery.it/artista/santissimi/
KETTY LA ROCCA 80. Gesture, Speech and Word

Nel frattempo a Ferrara è in corso la XVIIa edizione della Biennale Donna, ospitata come di consueto dal Padiglione d’Arte Contemporanea e dedicata quest’anno ad un’artista che in Italia non era esposta da circa vent’anni. Qui bisognerebbe provare un po’ di vergogna, prima di tutto perché Ketty La Rocca era italiana, e poi perché è stata un’artista davvero eccezionale.
La mostra beneficia di prestiti da un po’ ogni dove: le opere arrivano dall’Archivio Ketty La Rocca di Michelangelo Vasta, dal Mart di Rovereto, dalla Quadriennale di Roma, da alcune collezioni private e perfino dalle Teche Rai. L’idea è di comporre un affresco delle serie più significative dell’artista, condite da progetti e materiali inediti e concentrate principalmente sul rapporto tra corpo e linguaggio verbale.
Il contesto è quello degli anni Sessanta e Settanta: mondo dominato dagli uomini, donne sinonimo di casalinghe e contraccettivi come fantascienza. In un quadro del genere anche un gesto può essere rivoluzionario, e al potenziale espressivo dei gesti La Rocca ha deciso di dedicare tutta la sua carriera. Contro la retorica propugnata dai media e tutti gli stereotipi del gentil sesso, l’artista ha realizzato performance, collage, cartelli, poesie e cortocircuiti semantici capaci di smascherare la comunicazione e l’identità in tutte le loro contraddizioni.
Lavori come Le mie parole e tu?, In principium erat (libro fotografico da cui poi è stato tratto Appendice per una supplica, il primo video in assoluto girato in Italia da una donna), Craniologie e Verbigerazioni l’hanno portata ad essere una star del nonsense, ma soprattutto una delle prime artiste italiane ad acquisire fama internazionale.
15 aprile – 3 giugno 2018
a cura di Francesca Gallo e Raffaella Perna
Padiglione d’Arte Contemporanea – FERRARA
http://artemoderna.comune.fe.it/index.php?id=1938