Eva Kot’átková ha più o meno la mia età: nata a Praga nel 1982, ha avuto però un’infanzia leggermente diversa, e non solo perché ha studiato arti visive. Figlia della caduta del muro di Berlino, è cresciuta mentre la società ceca rivoltava sé stessa come un calzino. Nel tumulto generale l’aspetto che l’ha colpita di più come artista è stato quello del controllo delle istituzioni sull’individuo, esercitato attraverso il sistema educativo e la pedagogia.
Nei suoi primi lavori il mondo scolastico è onnipresente e indagato con un tale senso di oppressione che il sospetto che ce l’abbia ancora con qualche insegnante è palpabile. Le opere prodotte variano da strutture di legno che costringono i bambini in posizioni rigide come farfalle impagliate, a performance come Walk to School, in cui l’artista ripercorre ossessivamente il tragitto da casa a scuola senza farsene una ragione.
Queste opere si distinguono per due elementi fondamentali: la volontà di trattare l’educazione da un punto di vista antropologico e universale, ovvero senza riferimenti specifici a culture o periodi storici, e la necessità di veicolare queste riflessioni attraverso il corpo. Da che mondo è mondo infatti è sui corpi che l’oppressione dei sistemi di governo si fa più tangibile, che siano individui in carne e ossa o solo rappresentati. Nel caso di Eva Kot’átková il corpo umano fa capolino soprattutto in due modi: in pezzi – cuciti, imbottiti e poi legati con nodi e fili a oggetti di vario tipo, a formare composizioni dichiaratamente dadaiste – oppure in tempo reale, nella persona di performer intrappolati in gabbie di metallo che si offrono come metafore di una condizione interiore non invidiabile.
Se cerchi degli esempi concreti, li puoi trovare da qui a luglio al Pirelli Hangar Bicocca di Milano, nell’ambito della prima personale che l’Italia ha dedicato a questa artista. Dentro ci sono cose come Cutting the puppetteer’s strings with paper teeth – Brief history of daydreaming and streaming control, un teatrino spettrale popolato da bambini-fantoccio appesi al soffitto, in attesa che qualche oscuro dramma si compia. L’opera è stata messa in scena ad Art Basel ma qui è presente solo in forma “evocativa”, anche se, grazie anche al titolo-spoiler, non è difficile immaginarsi il contenuto.
In mostra ci sono anche la serie di gabbie-sculture indossabili Heads e tre Diary, teche/installazioni in cui ci si può immergere a figura intera nella lettura di testi spiazzanti, come ad esempio una raccolta di interviste in cui animali tradizionalmente tiranneggiati dall’uomo confessano la loro storia di oppressione.
Notevole è anche Feeding the Cleaning Machine with what other didn’t finish, un’opera che consiste in un set o uno spazio recintato, riempito con oggetti che alcuni performer attivano in determinati momenti del giorno secondo uno schema prestabilito. Nel corso dell’azione, i performer in questione eseguono delle coreografie hitleriane che gli impongono di coordinarsi tra loro come fossero i componenti meccanici di un’aberrante macchina delle pulizie.
In Stomach Of The World – video che apre la mostra, proiettato all’estremità di un cunicolo buio simile ad un apparato digerente – sono dei bambini invece ad eseguire delle istruzioni che in questo caso consistono in una serie di esercizi corporei, anche se i tempi spensierati dell’ora di ginnastica sono solo un vago ricordo. Suddivise in episodi e commentate da una voce fuori campo, le attività prevedono cose come disegnare una radiografia, indossare oggetti di scarto, fingersi morti e intrufolarsi nella pancia di un rettile di stoffa.
Protagonista indiscussa di tutta la mostra la Dream Machine che gli ha dato il titolo: una struttura a due piani che è una sorta di ufficio/laboratorio per bambini con una fervida immaginazione. Nello spazio inferiore i più piccoli scrivono i propri sogni sopra dei fogli di carta e poi li leggono ad alta voce dentro un microfono; il piano superiore invece è un letto enorme in cui i grandi possono accoccolarsi per ascoltare i racconti dentro le cuffie, se hanno la fortuna di trovarne ancora qualcuna che funzioni.
Un esperimento che mette a dura prova anche gli adulti più cinici e dà un assist non indifferente all’industria del sogno, pur lasciando un po’ perplessi sul versante diritti e sfruttamento minorile. Illegale o meno, il leit motif della mostra non perde il suo smalto: in un universo in cui l’uomo ha perso la sua centralità, ha ancora senso riproporre i modelli educativi che da quel presupposto hanno preso forma? Qualsiasi risposta vogliate dare a questa domanda, che il corpo umano oggi non sia altro che il risultato delle forze che lo costringono e lo plasmano per Eva Kot’átková è fuori discussione. Sempre più simile ad una macchina insonne, il nostro involucro è reso assimilabile, ma anche assemblabile, all’oggetto da un mondo che è come un gigantesco stomaco che digerisce tutto, e produce scarti che ci somigliano.