ArtVerona è finita da un pezzo, ma tra gli strascichi che si è lasciata alle spalle c’è una mostra alla Galleria d’Arte Moderna Achille Forti che resterà aperta ancora fino al 28 gennaio. Questa mostra, curata in parallelo alla fiera da Adriana Polveroni e da Patrizia Nuzzo, si propone di fare una cosa per cui si era dichiarato impotente perfino Sant’Agostino, ovvero definire il tempo. Come? La risposta ce l’abbiamo di fronte tutte le mattine quando ci guardiamo allo specchio: attraverso il corpo, lo strumento di misurazione più fedele e impietoso che abbiamo.
Per l’occasione le opere della collezione permanente si sono fatte da da parte, liberando gli spazi di Palazzo Forti per ospitare i corpi di tre guru dell’arte contemporanea e del trasformismo: Luigi Ontani, Urs Lüthi e Roman Opalka. Personalità poliedriche, sorprendenti e sopra le righe, accomunate dall’aver affrontato lo scorrere del tempo in maniera diversa dagli altri: invece di camuffarne gli effetti, li hanno resi più evidenti che mai.
Attraverso barocchismi, sense of humor e minimalismo spinto, ecco quindi tre esempi notevoli di come affrontare l’abbruttimento a cui la natura matrigna ci sottopone.
Luigi Ontani
Il concetto di tempo di Luigi Ontani è qualcosa di veramente affascinante. E’ come se tutte le epoche storiche, presente, Antichità, Preistoria, Medioevo, leggende, miti e allegorie, potessero convivere contemporaneamente nello spazio di una sola opera, ed incarnarsi tutte in un solo corpo, il suo, per la precisione. Nell’arte di Ontani il corpo non è testimone di un processo lineare verso la demenza senile, ma di una pluralità di tempi sovrapposti e simultanei, tempi dell’arte soprattutto, indagati attraverso il filtro dell’iconografia e degli stili.
Per capirlo bisogna tenere presente che Ontani è uno degli artisti più marzulliani del Belpaese. I suoi titoli sono un tripudio di neologismi, le sue citazioni un dispiego di multiculturalità; con ibridi in ceramica, metalli preziosi e vetro soffiato, riscatta l’artigianalità dalla produzione seriale; predica la Vitarte, vive e lavora nello studio che un tempo fu di Canova. Con i suoi completi di seta e le sue suggestioni orientaleggianti, Ontani è un po’ il Franco Battiato della storia dell’arte.
Ontani ha iniziato a travestirsi prima di Cindy Sherman e di Yasumasa Morimura, e prima di loro ha trovato il modo di farlo sembrare divertente. Eppure il dato che riesce a stupirmi di più è ancora un altro: Ontani è l’unico che riesce a cambiare identità restando sempre e comunque sé stesso. Può agghindarsi come vuole, passare da Oscar Wilde a Leda, a Cristoforo Colombo, o trasformarsi in un’erma di ceramica con tanto di zoccoli da centauro, ma la sua fisionomia resta sempre, inequivocabilmente, inconfondibile.
Nel complesso le sue performance fisse (quelle che il resto del mondo chiama fotografie), i quadri viventi e gli ambiziosi sé stesso in scala 1:1, ne fanno un’incarnazione oscillante tra un narcisismo estremo e un moderno San Sebastiano. Le prime due sale di Palazzo Forti ospitano 27 opere, molte da collezioni private, che vanno dagli anni Settanta alle AnamorPose, incluse fotografie, 4 ceramiche e una minuscola versione de Le Ore, dove l’artista scandisce il tempo trasformandosi in una meridiana.
Urs Lüthi
La terza sala invece è tutta per Urs Lüthi, un artista che non ha giocato solo sull’ambiguità e la fluidità di identità e generi, ma anche sulla precarietà dell’esistenza e sull’inefficienza del corpo nell’accompagnarci in questo percorso. Celebre in questo senso un’opera non in mostra, Selfportrait Braceland IV, che lo ritrae letteralmente con il cuore in mano, per non parlare degli Ex voto, sorta di tubi di vetro con la sua testa incastrata sopra. Il senso, ça va sans dire: per quante evoluzioni mentali tu faccia, la tua vita dipende sempre dalla buona salute dei tuoi organi. E che dire poi delle Sculture cubiste, monche e polimateriche, che trasmettono un senso di precarietà immediato e tangibile?
Nel complesso il senso del tempo di Lüthi è tutto inscritto in questa parabola: dalle opere giovanili in cui cerca di fingersi vecchio a quelle contemporanee in cui mostra invece un’anima giovane. La mostra traccia un quadro abbastanza esauriente del processo di invecchiamento di Lüthi, un artista che ha vissuto il passaggio da ammiccante giovane androgino a simpatico pelato panzone in calzoncini corti al grido di: “solo nell’arte posso vivere come io penso sia possibile”.
Come Ontani, Lüthi tratta lo scorrere del tempo come un’ironica esperienza estetica. Per capire fino a che punto il non prendersi sul serio sia un marchio di fabbrica nei suoi lavori, vi ricordo che nel 2001, al padiglione Svizzera della Biennale di Venezia ha esposto direttamente sé stesso – sempre in sneakers, calzettoni e t-shirt – reclinato davanti ad uno slogan agguerritissimo: “art for a better life”.
A Palazzo Forti invece un pannello centrale di 24 metri fa da spartiacque tra i tableaux fotografici in bianco e nero degli anni Settanta, e 18 collage digitali a colori che mescolano ritagli di giornale, lavori del passato e oggetti a caso, in quello che l’artista considera l’ennesimo autoritratto. A completare il percorso non poteva mancare anche una selezione dei suoi Small Monuments: monumenti ibridi in formato tascabile.
Roman Opalka
Arrivati nell’ultima sala finalmente si inizia a ragionare, perché nel mondo dell’arte contemporanea quando dici tempo dici Opalka. Di conseguenza, pur essendo l’unico dei tre che ha dovuto abbandonare la sua ricerca, putroppo, nel 2011, Roman Opalka è forse l’unico che meritava a pieno titolo di trovarsi in una mostra dedicata al corpo come spazio di riflessione sul tempo. Opalka infatti è stato il primo a cercare di dipingere il tempo, e uno di quelli che l’ha fatto nel modo più maniacale. Già in partenza il compito non era semplice: rappresentare “il finito definito dal non-finito”, così ha definito l’opera di una vita.
In pratica, dal 1965 Opalka ha deciso che la pittura figurativa era morta, e che l’unico modo per dirle addio era attraverso la pittura stessa. Quindi si è armato di pennello, vernice bianca, vernice nera e di una serie di tele identiche, tutte in formato 196 x 135 cm – niente di trascendentale, solo le misure della porta del suo studio – e ha deciso di rappresentare il tempo nella maniera più diretta possibile: tenendo il conto.
Su queste tele ha iniziato a dipingere una serie di numeri, da uno a infinito, un numero al giorno, per i cinquant’anni successivi. Ogni numero aveva la dimensione necessaria per essere percepito da lontano come una nebbia indistinta, e da vicino come un conteggio perverso. Per movimentare l’operazione, a partire dal 1972 ogni numero aggiunto alla tela veniva anche pronunciato ad alta voce e registrato su un nastro; subito dopo, Opalka si scattava una fotografia come quelle che vedete qui sotto.
Quelli che troverete a Verona sono 60 Autoportraits dalla serie tendente a infinito di Opalka. E’ il volto dell’artista nel flusso del tempo, giorno dopo giorno, con la stessa camicia, nella stessa identica posizione; una teoria che a guardarla correndo offre una moviola dell’invecchiamento facciale in tempo reale. Ecco qualcosa su cui riflettere quando si pensa al concetto di “dedizione”.