Incontri ravvicinati

Come riconoscere una performance. Cinque elementi fondamentali

Performance è quello che accade quando un quadro esce dallo spazio per entrare nel tempo. L’elemento principale che la caratterizza è l’inclusione di un corpo vivo nell’opera stessa, dove di solito non se la passa troppo bene. La performance è un’opera d’arte composta per metà dal corpo dell’artista e per metà dal disagio del pubblico. Al suo interno tutto può succedere, ma nel marasma possiamo rintracciare alcune costanti.

Cinque elementi formali si ripetono quasi ossessivamente nella maggior parte delle performance degli ultimi decenni; conoscerli vi aiuterà a distinguere un’opera d’arte da un semplice disturbo mentale. Ma attenzione: spesso la ripetizione porta allo svuotamento di significato.

1. Il nudo

 

Vanessa Beecroft, VB46, 2011

Se state pensando di dedicarvi alla performance come mestiere, accertatevi di essere assolutamente disposti a spogliarvi in pubblico. Se l’idea vi fa arrossire allora lasciate perdere, meglio tornare a dipingere acquerelli su Ponte Vecchio. Come se non bastasse il nudo di cui stiamo parlando è molto lontano dal bello ideale classico, solo da ammirare e contemplare, ma più simile a quello clinico, quasi ospedaliero, che siamo sempre poco propensi ad associare all’arte.

Il desiderio di conoscenza del corpo nella sua materialità è stato assecondato dai performer nei modi più fantasiosi: dalle Conversion di Vito Acconci agli screening millimetrici di Joan Jonas nei vari Mirror Check. Allo stesso tempo il nudo è un tabù infranto, un pugno nello stomaco per scuotere coscienze. Usato e abusato dalle artiste femministe come una sorta di antidoto al vouyerismo maschile, è tornato ad essere sopportabile nelle composizioni super estetizzanti di Vanessa Beecroft, dove ogni corpo è sistemato così maniacalmente all’interno della coreografia da fare invidia a un servizio di moda.

Di recente il nudo è stato ripreso e svilito anche da Milo Moirè nelle sue infelici passeggiate, confermandosi un espediente sempre valido per far parlare di sé. Ma mi raccomando, spogliarsi e basta non è sufficiente, bisogna anche avere qualcosa da dire. Il nudo è sempre un mezzo, non un fine.

2. I fluidi

 

Jeanine Antoni, Loving Care, 1992

Sarà perché la performance è nata anche dall’action painting – pratica in cui la pittura aveva la stessa importanza del gesto che l’aveva stesa – ma certo è che questa forma d’arte in particolare sembra avere un debole per qualsiasi materiale liquido, tanto più se organico e spiacevole.

Sangue, fluidi corporei, escrementi, fango e fiumi di vernice sono usati dagli artisti preferibilmente per sporcarsi e rotolarcisi dentro, e per lasciare tracce, discrete come le Antropometrie di Yves Klein o violente come quelle di Ana Mendieta.  Azioni di questo tipo possono essere lette come una sorta di ritorno all’infanzia nella possibilità di imbrattarsi senza ritegno, ma rappresentano soprattutto la traduzione visiva di un atavico senso di colpa.

Sorvolando sui Vagina Paintings di Shigeko Kubota – più coverizzati di un pezzo dei Queen – sulle sbrodolate di senape e ketckup di Paul McCarthy e sugli scambi di urine e i rinomati spargimenti di sangue dell’Azionismo Viennese, uno degli esempi più soft di questa categoria, non me ne voglia la geniale Fountain di Bruce Nauman, è il Loving Care di Janine Antoni, che ha trasformato sé stessa in un pennello vivente usando della semplice tinta per capelli.

3. Il pericolo

 

Chris Burden, Soot, 1971

Mettere il proprio corpo in situazioni di rischio è una pratica così comune nella performance che spesso è sfuggita di mano, e più di uno ha finito per lasciarci le penne. Artisti come Bas Jan Ader, che è salpato su una barca e non è più tornato, o come Pippa Bacca, vittima di un viaggio in autostop finito in tragedia, per fortuna rappresentano solo una piccola percentuale di un trend diffuso, che di solito ha epiloghi migliori, per quanto comunque spiacevoli.

Molti artisti amano legarsi o bendarsi per privarsi dei canali comunicativi fondamentali e renderci consapevoli delle difficoltà espressive e delle costrizioni sociali in cui viviamo; oppure mettere il proprio corpo in situazioni deprimenti dal punto di vista sanitario e psicologico, testandone il limite estremo di resistenza. Basti pensare ai Rythm di Marina Abramovic, sempre sul punto di finire male, alle mutilazioni di Rudolf Schwarzkogler o alle performance di una qualsiasi artista dell’area latina, tutte capaci di lasciare un segno, e non solo nella memoria dello spettatore.

Nella stessa categoria rientrano di diritto anche i tagliuzzamenti di Gina Pane, gli uncini che Stelarc si ficcava sotto la pelle per restare sospeso nelle location più impensate, o anche i vetri rotti su cui Valie Export si rotolava nel tempo libero. Come a dire: se lo scopo era dimostrare la vulnerabilità del corpo, gli artisti ci sono riusciti in pieno. Esemplare in questo senso la performance di Chris Burden, che si è fatto sparare in un braccio da un amico con una calibro 22 sotto gli occhi di un pubblico inerte. Un’azione che ha avuto molta fortuna, sotto tutti i punti di vista.

4. Il colore rosso

 

Marina Abramovic, Balkan Baroque, 1997

Sdoganato da Valentino, il rosso è decisamente anche il colore della performance. Più o meno profondo, induce in uno stato d’allarme consono alla violenza dell’azione che di solito si compie. Per tradizione, oltre all’amore è associato anche ad un sacco di altre cose spiacevoli, come la colpa, il pericolo e il dolore, quindi molto utile per assicurarsi che il visitatore sia raggiunto dal disagio il prima possibile.

Con questo obiettivo il rosso prende varie forme: dal mantello di Jim Dine in Smiling Workman alle scarpette da tango di Pilar Albarracin. In qualità di capo d’abbigliamento è usato soprattutto dalle donne, senza distinzione di nazionalità, e con alcune varienti interessanti: si va dalle tuniche perturbanti dell’olandese Mella Jaarsma, al Red Day (In the Red #17), di Jelili Atiku, Nigeria, fino al bozzolo sferruzzato da Bea Camacho, Filippine, per poi tornare a nord con Rebecca Horn, la quale con un pratico sistema di tubi riesce a combinare il vestiario al rosso del sangue che cola, tanto caro anche a Regina José Galindo. Perché lo sappiamo bene: il sangue, da solo, è scandalo assicurato.

Tuttavia in questo senso molto apprezzata  è anche la carne animale, per le sue raffinate qualità metaforiche. Usata un po’ da chiunque, dalla Vanitas di Jana Sterbak al Meat Joy di Carolee Schneemann (di entrambi ho parlato qui) alle carcasse spolpate indossate con naturalezza da Zhang Huang e da Tania Bruguera, l’uso della carne cruda ha raggiunto uno dei suoi vertici splatter nel Balkan Baroque di Marina Abramovic, in cui l’artista ha sostituito viscere e bistecche con 1500 ossa di bovino. Per quattro giorni, sei ore al giorno, i visitatori della  Biennale di Venezia del 1997 l’hanno vista seduta sulla cima di questa catasta maleodorante, intenta a ripulire meticolosamente rotule e femori dai residui di tessuto muscolare.

5. Il travestimento

 

Gilbert & George, The Singing Sculpture, 1970.

Nonostante la performance si basi sull’esporre al pubblico il corpo dell’artista nella sua reale fisicità, molti esponenti si sono divertiti a contraddire questo concetto mostrandosi sotto mentite, ma chiaramente dichiarate, spoglie. Artisti come Urs Luthi, Annette Messager o Adrian Piper ne hanno fatto uno strumento per approcciare questioni di genere, ma questo accorgimento formale spesso è sfociato anche in azioni divertenti, che spezzano il clima ansiogeno di quelle che ho citato qui sopra e ci riportano alla spensieratezza delle uova sode autenticate da Manzoni.

Jannis Kounellis ad esempio, seduto su un cavallo nella parodia di un monumento equestre, o gli indimenticabili “baccontani” (con Luigi Ontani nei panni di Bacchino, uno dei soggetti più longevi della storia dell’arte) non possono che riportarci il sorriso, mentre non mancano di puntare il dito sul narcisismo strabordante e gli stereotipi della società attuale.

Il momento più alto di espressione di questa pratica però, dal mio punto di vista lo hanno raggiunto le Singing Sculptures di Gilbert & George. Quest’opera è una sorta di corto circuito in cui il duo inglese usa la performance per realizzare delle sculture, per poi contraddirsi di nuovo facendole cantare.

 

Se per caso a questo punto qualcuno avesse ancora voglia di approfondire, qui la mia top 5 di testi sacri:

 

Lea Vergine, Body art e storie simili – Il corpo come linguaggio, 2000

Tracey Warr, The artist’s body, 2002

Amelia Jones, Body Art/ Performing the subject, 1998

R.L Golberg, Performance, live art since 1960, 2004

Germano Celant, Dal futurismo alla Body art, 1977

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