Stasera c’è chi andrà al cinema a vedere Shining, chi a ballare in qualche horror party vestito da zombie e chi si barricherà in casa a luci spente per sfuggire ai bambini di “dolcetto o scherzetto”. Come piano per il pomeriggio invece, io consiglio di fare un salto a Venezia a vedere due belle mostre collaterali di questa 57esima Biennale d’Arte, che resteranno aperte solo fino al 26 novembre.
La prima è quella di Jan Fabre all’Abbazia di San Gregorio, zona Punta della Dogana, per intenderci. Il titolo, Glass and Bone sculpures 1977 – 2017, dice già praticamente tutto, perchè vetro e ossa sono gli unici materiali che vi troverete di fronte, materiali che negli ultimi quarant’anni l’artista è stato capace di declinare in decine di modi diversi, qui riuniti per la prima volta.
In questa mostra ossa e vetro vanno a comporre accostamenti improbabili, che giocano sull’analogia tra questi materiali, conditi da una profusione di ritocchi a penna Bic, di cui Fabre ormai è praticamente testimonial ufficiale. L’artista ha trovato in questo inchiostro il suo IKB, e lo usa da anni per raccontare l’Ora Blu, il magico momento di passaggio tra l’oscurità e la luce che tutti noi invece chiamano crepuscolo. Attraverso un continuo interscambio di elementi – vetro usato per rappresentare ossa umane, ossa umane usate per rappresentare tessuti molli e così via – Fabre cerca di comunicarci il concetto di metamorfosi che governa sia il cosmo che il suo lavoro.
In equilibrio incerto tra nascita e morte, potrete camminare per i corridoi dell’Abbazia accompagnati da una teoria di teschi blu che addentano scheletri di uccelli, ratti e scoiattoli, per poi fermarvi ad apprezzare intestini di vetro appesi al soffitto, nove ovuli giganti brulicanti di spermatozoi e disposti secondo le fasi lunari, un macabro party con carcasse di animali e così via, fino ad arrivare a due pezzi: The Future Merciful Vagina and Phallus e Monks. La prima opera consiste in due mucchi di ossa di vetro coronati da due organi genitali in osso, in forma di primitivi altari sacrificali; la seconda sono quattro sculture in pezzi d’osso che riproducono una tunica monacale sfruttando la classica metafora del corpo come vestito.
L’ispirazione principale di tutto questo gioco di materiali non sono stati né i vetrai di Murano né i manuali di anatomia, ma bensì i pittori fiamminghi, che creavano i loro capolavori mescolando pigmenti ad ossa triturate. Alla fine della visita vi accorgerete che vetro e tessuto osseo hanno in comune soprattutto una cosa: sono duri e fragili allo stesso tempo, proprio come la vita umana.
La seconda mostra che consiglio è sempre nello stesso sestriere, questa volta vicino al Ponte dell’Accademia. Qui una tradizionale abitazione venezana del campiello San Vidal è stata ribattezzata per l’occasione The Pavilion of Humanity e adibita ad ospitare OBJECTION, il frutto di una proficua residenza delle artiste Ekin Onat (Turchia) e Michal Cole (Israele). Nonostante si sia trasformato in un luogo espositivo, l’appartamento si presenta ancora completamente ammobiliato, cosa che dà subito il la allo straniamento del visitatore.
Dopo essere entrati con la sensazione di introdurvi in una proprietà privata e violare una qualche intimità familiare, vi renderete conto che non solo ogni spazio è interamente accessibile, dal salotto alla camera da letto, ma che è proprio a voi che si rivolge, affrontando temi come il controllo sociale esercitato dai sistemi politici, il potere e spinose questioni di genere. Così vi troverete a faccia faccia con un ambiente che, oltre ad avere un suo carattere e una sua storia, è anche un luogo di protesta, e femminista, principalmente.
La prima stanza che incontrerete è foderata di stoffa: più di 25 mila cravatte usate cucite insieme, dal pavimento al soffitto, mobili inclusi. Michal Cole ha iniziato chiedendole in prestito a dei banchieri che hanno cercato di abbordarla in un pub di Londra e da allora non ha più smesso. La sala da pranzo invece è una terribile tavolata grigia fatta di uniformi antisommossa, visiere e manganelli riciclati; entrambi gli ambienti costringono a riflettere sulla disumanizzazione che s’innesca indossando una divisa e riescono a farci percepire fisicamente il senso di oppressione del potere maschile. In cucina invece, l’ambiente femminile per eccellenza, troverete una tazzina da caffè urlante abbandonata sul tavolo, e un altro volto disperato che vi implora aiuto dal pentolino rimasto sul fuoco.
A seguire, nel corso del vostro piccolo viaggio d’esplorazione nella tana del Bianconiglio, vi capiterà di salire al primo piano accompagnati dalle registrazioni audio dei discorsi elettorali pronunciati dai politici turchi negli ultimi 14 anni – un’installazione intitolata Dead End (vicolo cieco), non per caso. Da qui potrete dirigervi subito alla toilette, dritto in fondo al corridoio, dove vi troverete faccia a faccia con una videoproiezione che riporta in auge il mito di Sisifo, l’eroe condannato dagli dei ad eseguire un compito senza fine. La logica versione moderna è una donna in piedi su una barca che tenta di asciugare il Canal Grande con un mocio per pavimenti.
Se a questo punto vi starete chiedendo chi può aver congegnato una trappola del genere, non vi preoccupate: nella camera subito accanto vi troverete finalmente faccia a faccia con le stesse artiste, due presenze ectoplasmatiche che si danno le spalle ai bordi dello stesso letto. In tutto il percorso solo una porta resta sprangata: in questo caso dovrete accontarvi di origliare dal buco della serratura stralci sommessi di una conversazione incomprensibile, in cui le voci di Ekin e Michal si sovrappongono parlando contemporaneamente in due lingue diverse, alla ricerca di un’intesa chiaramente impossibile da raggiungere.