Per vedere la mostra di Miroslaw Balka al Pirelli Hangar Bicocca dovete prima sopravvivere a quella di Rosa Barba. Significa farsi largo tra una selva di giganteschi proiettori, pellicole rotanti e proiezioni a singhiozzo di forme colorate e fantasmi di archeologia industriale. Una volta riusciti a superare tutto questo, incluso un bel film in cui i superstiti dell’eruzione del Vesuvio inscenano un’avvincente esercitazione di evacuazione, potete tuffarvi a braccia aperte tra i tendoni che dividono la prima sala dell’Hangar dalle cosiddette Navate, luogo dove è allestita Crossover/s, un’esposizione in cui la S non è un optional.
Il primo rischio in cui incorrerete dopo quello di non riuscire a leggere nulla del libretto con le spiegazioni, è quello di non accorgervi delle prime due opere in mostra, ovvero Unnamed e Holding the Horizon, due belle trovate site specific che è comunque giusto segnalare perché rivelano già molto della poetica dell’artista.
La prima consiste semplicemente in un’azione: una volta agguantate le aperture dei tendoni dovrebbe diffondersi nel corpo del visitatore una strana sensazione di calore, a una temperatura di 36, 37 gradi. La seconda invece, richiede che lo spettatore si volti con lo sguardo all’insù, in modo da poter apprezzare una linea gialla che scorre su un fondo nero.
Scritto questo mi rendo conto che non devo avervi dato molti elementi per considerarlo un evento a cui non si può mancare, ma posso assicurarvi che questa retrospettiva può rivelare dei lati molto interessanti, senza contare che l’ingresso è gratis. La cifra vincente del lavoro di Miroslaw Balka, classe 1958 e look alla Gallagher, è di saper davvero come mostrare la precarietà umana, coinvolgendo il visitatore non solo visivamente (complice lo spazio, l’allestimento vanta un gioco di luci ed ombre assolutamente scenografico) o emotivamente, ma soprattutto a livello sensoriale.
Quindi, anche se a prima vista non si direbbe, al centro delle preoccupazioni dell’arista c’è soprattutto il corpo umano nel suo complicato rapporto con i cinque sensi. Tutte le installazioni, molto minimali dal punto di vista estetico, hanno sempre come interlocutore l’uomo e acquistano davvero senso solo nel momento in cui entrano in relazione con una persona fisica, che poi di solito si divertono a disorientare.
E’ il caso ad esempio di 200 x 760 x 500/ The Right Path, un’installazione che all’esterno sembra solo un corridoio di lastre d’acciaio stile container, ma è un richiamo irresistibile ad entrarci e percorrerlo, trasportando il visitatore uno spazio buio e claustrofobico in cui il tatto resta l’unico senso spendibile per uscire; oppure di 400 x 250 x 30, che consiste in un semplice cilindro di metallo con applicata una pedana di legno su cui il visitatore, appena sopravvissuto all’attacco di panico dell’opera precedente, è chiamato a camminare mettendo a dura prova anche il proprio senso dell’equilibrio.
Per non parlare poi di 196 x 230 x 141, una trappola per topi che vi attira al suo interno per poi spegnere la luce o della videoinstallazione BlueGasEyes, che vi farà passare per sempre il vizio di lasciare il fornello acceso.
Degni di nota in questo senso anche il mitico Soap Corridor, già presentato alla Biennale di Venezia del 1993: una struttura percorribile e soprattutto “annusabile”, costruita sulle misure del corpo di Balka e rivestita completamente di sapone, neanche fosse una vetrina di Lush; oppure di Yellow Nerve, un sottile filo di cotone giallo appeso al centro del Cubo, che mette a dura prova la percezione dello spazio, e soprattutto la vista, del visitatore.
A questo punto, se vi chiedete perché mentre scrivo sto dando tutti questi numeri la risposta non è che vi invito a giocarli al Lotto, ma negli esordi del buon Miroslaw, che ha iniziato negli anni ’90 a misurare il mondo con il proprio corpo, perché usare il metro a quanto pare pareva brutto.
Per spezzare un’ultima lancia in suo favore devo farvi notare che ai tempi Balka non è stato l’unico ad usare sé stesso come unità di misura, ma presto scriverò un articolo per raccontarvi anche quello. Per ora vi basti sapere che le misure che danno il titolo a molte di queste sue opere non sono quelle delle opere stesse, ma solo un vizio un po’ duro a morire.