Incontri ravvicinati

Donna con cervello: Maria Lassnig e la coscienza del corpo.

Mentre tutti parlano del Rinascimento digitale di Bill Viola a Palazzo Strozzi, le Gallerie Degli Uffizi iniettano a Firenze un’altra dose di contemporaneo per sottocutanea portando in mostra una delle artiste più importanti della seconda metà del Ventesimo secolo, una che per intenderci si contende il posto nientepopodimeno che con Louise Bourgeois.

Grazie alla collaborazione con l’Albertina di Vienna, 25 opere di Maria Lassnig, scelte in un arco di tempo che va dal 1960 all’altro ieri, saranno visibili al pubblico italiano fino al 25 giugno; titolo: Woman Power, da non confondere con il girl power di ascendenza pop.

Autoritratto is for boys, body awareness is for men

Una delle cose fondamentali che bisogna sapere su Maria Lassnig è che ha iniziato a ritrarsi ancora prima che io nascessi. Ha continuato imperterrita fino a tre anni fa, producendo un olio su tela dietro l’altro: corpi deformi, fluidi, senza contorno, nel punto esatto tra il mostro e l’essere umano. Considerando lo stile dei suoi quadri potrebbe benissimo essere scambiata per la sorella di Francis Bacon, o al massimo una cugina di primo grado, e invece no, nessun legame di parentela.

 

 

Maria Lassnig è austriaca, frutto di un matrimonio non troppo riuscito, scivolata in una relazione altrettanto tormentata e poi finita dritto nelle braccia della Seconda Guerra Mondiale. Mentre tutto intorno fischiavano le bombe lei studiava all’Accademia di Belle Arti di Vienna, ovviamente al corso di pittura, anche se a prima vista non si direbbe.

Con un passato così difficile è quasi un must have associarsi a compagnie poco raccomandabili, e Maria conferma la regola entrando a far parte dell’Hundsgruppe, un gruppo di artisti dediti all’action painting e all’espressionismo astratto, tra i quali è d’obbligo citare almeno Arnulf Rainer.

Proprio a braccetto di Rainer, l’artista che qualche anno più tardi pasticcerà i suoi ritratti fotografici sotto l’effetto di allucinogeni, verso la metà del secolo Maria riesce a mettere piede a Parigi e a fare la conoscenza del Surrealismo e di André Breton.

 

Maria Lassnig, Lady with Brain, 1990.

 

In quegli anni, nonostante il maccartismo, la Rivoluzione Cubana, la nascita del rock ‘n’ roll e l’inizio delle trasmissioni Rai, pare che alla Lassnig non interessi nulla che non sia la pittura astratta e il proprio corpo.

Per non rendere il secondo soggetto troppo monotono, sceglie di ritrarsi solo su fondo neutro usando colori antinaturalistici, aciduli e malaticci e non mancando mai di omettere dalla rappresentazione qualche parte fondamentale.

Questa tecnica, da lei stessa battezzata Body Awareness alcuni anni più tardi, la stimola talmente tanto che tornata in patria sceglie di abbandonare del tutto l’astrattismo, per dedicarsi a storpiare sé stessa a tempo pieno. Eppure se state pensando che sia solo una questione di narcisismo sarete costretti a ricredervi: quello che fa Maria non è rappresentare il proprio corpo come lo vede, ma come lo sente, e come vedete è tutta un’altra cosa.

 

Maria Lassnig, Self-portrait as a monster, 1964.

 

Di sé stessa riproduce solo le parti che percepisce mentre dipinge e questo spiega perché la vediamo spesso senza capelli. La sua pittura è un’analisi impietosa dello scarto tra quello che sembriamo e quello che sentiamo, tra l’integrità perfetta che sfoggiamo all’esterno e il processo di dissoluzione che ci corrode dentro.

Di volta in volta Lassnig si traveste e cambia forma, diventa un oggetto, un robot, un alieno o un personaggio mitologico, per cercare di mostrarci quello che sente attraverso il proprio corpo. Una carrellata di selfie itterici e cianotici che trova tutto il suo senso anche oggi nell’era di Instagram, con la quale però stabilisce una differenza fondamentale: il senso.

 

Maria Lassnig, Self-portrait with Saucepan, 1995.

Femminismo e cartoni animati

A partire dagli anni Settanta Maria Lassnig mette la sua consapevolezza corporea anche al servizio della lotta femminista con una serie di lavori chiamata Kitchen War, che mostra come l’artista non abbia un rapporto conflittuale soltanto con il proprio aspetto fisico, ma anche con tutti gli oggetti della casa.

Al grido di “Un uomo, un figlio non sono il mio destino”, Lassnig realizza opere come The Kitchen BrideSelf-portrait with Saucepan: nella prima si ritrae in forma di una gigantesca grattugia per il grana, nella seconda con una pentola rovesciata in testa.

Non essendo tagliata per il ruolo di angelo del focolare decide di trasferirsi a New York dove viene subito adottata dalla Walt Disney. Mentre tutte le gallerie rifiutano i suoi dipinti “strani” e “malati” e perfino i vicini di casa le consigliano di cambiare mestiere, Maria si iscrive ad un corso di cinema d’animazione ed inizia a realizzare una serie di cortometraggi disegnati, filmati e doppiati completamente da sola.

 

 

In questi lavori la componente femminista si conferma il “mai-più-senza” della sua incursione nell’audiovisivo: Baroque Statues, Couples, Palmistry, Art Education e Kantate –  la ballad autobiografica per palati forti che trovate qui sopra – riflettono sui rapporti di potere uomo/donna e sul sistema patriarcale con tutta l’ironia e il divertimento che mancano nei suoi dipinti. In ogni caso, se siete particolarmente sensibili all’intonazione, vi consiglio di non far partire il video.

 

Maria Lassnig, You or me, 2005.

Meglio tardi che mai

Conclusa la parentesi a stelle e strisce, Maria Lassnig fa il suo ritorno a Vienna sempre in veste di paladina della liberazione sessuale, dopo aver ottenuto una cattedra presso l’Accademia di Arti Applicate, un evento di portata storica considerando che era una donna e soprattutto i soggetti che dipingeva.

Oltre a costituire un precedente epocale, questo lavoro le permette di farsi conoscere al grande pubblico esponendo le sue opere in diverse occasioni, nonché di rappresentare l’Austria alla Biennale di Venezia del 1980, un successo comunque non paragonabile a quello che otterrà post-mortem.

Prima di lasciarci, alla Biennale farà ritorno anche nel 2013, a novant’anni suonati, questa volta per ritirare un Leone d’Oro alla carriera ottenuto a suon di autoritratti nei panni di Laocoonte, amplessi con tigri e pistole spianate, puntate aggressivamente verso lo spettatore; ma soprattutto per aver insegnato a tutti che il woman power non sta nel corpo ma nel cervello.

 

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