E così ci siamo, i giorni di attesa sono finiti. Dopo mesi di filmati subacquei sempre troppo brevi, con sommozzatori intenti ad estrarre strani oggetti dal fondo dell’Atlantico, dopo i silenzi della Fondazione Pinault e lo sterco del* animalist* (depositato con ampio anticipo, per far presente che c’è chi non dimentica) ecco che finalmente Palazzo Grassi e Punta della Dogana aprono i battenti sulla nuova personale di Damien Hirst, Tresures from the wreck of the unbelievable. Se come me l’hai già segnata in agenda, ecco due o tre cose che è bene sapere sul nostro eroe in vista delle abluzioni nella balsamica aria lagunare.
Figlio di un meccanico e di una cattolica praticante, Damien Hirst nasce nel 1965 a Bristol, per poi passare l’intera infanzia nella periferia di Leeds. Leeds negli anni Settanta doveva essere un posto terribile per un ragazzino, tanto che da adolescente, invece di prendersi le prime sbronze come tutt* quell* della sua età, il giovane Damien passa i pomeriggi immerso nei libri di patologia illustrati, tra sezioni di ghiandole e cellule tumorali. Non è escluso che sia questa una delle ragioni per cui il padre se ne andrà di casa, abbandonandolo con la madre a soli 12 anni.
Lo scatto qui sotto risale all’incirca a questo periodo di formazione: con un’opera dal titolo che non lascia spazio all’immaginazione, Damien Hirst entra a piè pari nel mondo dell’arte, posando nell’obitorio della scuola di anatomia del paese con una testa mozzata, con la quale mostra fin da subito estrema dimestichezza e familiarità. Da allora l’interesse per il deperimento fisico, specie quello altrui, sembra non averlo mai più abbandonato.
Oltre alle immagini di polpi e infezioni virali e al disegno dal vero di cadaveri, un’altra passione di Damien sono i piccoli furti, tanto che per la sua prima buona azione in vita dobbiamo aspettare la mostra Freeze, organizzata nel 1988 mentre è allievo della Goldsmiths University di Londra. Creando scandali come nel Regno Unito non se ne vedevano da tempo, Freeze riunisce le opere più irriverenti e provocatorie di quel gruppo di giovan* talentuos* che oggi la critica etichetta con il nome di Young British Artists.
Damien Hirst, With Dead Head, 1981
Damien Hirst, With Dead Head, 1981
Damien Hirst, With Dead Head, 1981
Damien Hirst, The Physical Impossibility of Death in the Mind of Someone Living, 1991
Damien Hirst, The Physical Impossibility of Death in the Mind of Someone Living, 1991
Damien Hirst, The Physical Impossibility of Death in the Mind of Someone Living, 1991
L’anno successivo l’incontro con il magnate e collezionista Charles Saatchi dà a Hirst la possibilità di argomentare il tema del corpo morto con un’opera che diventerà subito una pietra miliare, intitolata L’impossibilità fisica della morte nel pensiero di qualcuno che è vivo, un concetto che prima di allora aveva osato trattare soltanto Don DeLillo nel romanzo Rumore Bianco.
Non avendo la penna facile come il guru della narrativa americana, Damien affronta il problema a modo suo, comprando per corrispondenza oltre tre metri di squalo tigre da un pescatore australiano, ed installando la carcassa in soluzione di formaldeide, in una vasca nel bel mezzo della Saatchi Gallery. Invece di un arresto da parte delle forze dell’ordine o di una terapia da un bravo psichiatra, questa operazione gli frutta subito un posto privilegiato nella hall of fame della storia dell’arte.
Lo squalo, simbolo hollywoodiano del pericolo di morte che minaccia ogni vita umana, ha tanto successo che negli anni ’90 la vetrina di formaldeide viene ufficialmente strappata al monopolio della medicina legale per diventare un marchio di fabbrica dello stile di Hirst; vuoi perché infondo richiama anche le gabbie di Francis Bacon, suo modello indiscusso, vuoi per la citazione colta dell’inquadratura prospettica rinascimentale.
Qualunque sia la spiegazione di tanta dedizione, le tassidermie iniziano a costellare la carriera dell’artista in un catalogo di varianti più o meno plausibili, tanto che in formaldeide Hirst prova proprio a metterci di tutto: pecore, bovini sezionati, crani spellati e maiali alati. Nell’opera A thousand years invece, la combo vetrina più cadavere è riproposta senza conservanti e mette in mostra solo una testa di mucca mozzata, accompagnata da un cubo pieno di larve di mosca e da una lampada elettrica antizanzare.
Damien Hirst, Male Infertility, 2007
Damien Hirst, Male Infertility, 2007
Damien Hirst, Male Infertility, 2007
Gli insetti nascono, si nutrono e muoiono fulminati, tutto nello stesso identico claustrofobico spazio e sotto gli occhi non proprio entusiasti del* spettator*. Una bella allegoria del ciclo completo di vita e morte in cui anche gli esseri umani loro malgrado sono intrappolati.
Proprio per questo, ci sono buone probabilità che il successo di quest’epica della decomposizione non stia soltanto nell’assurdo di vedere un quarto di manzo in una mostra d’arte, ma anche e soprattutto nell’universalità dei simboli usati per ricordare che in fondo facciamo tutt* la stessa fine.
Dopotutto, come spiega Mario Perniola in “L’arte e la sua ombra”, il cadavere è: “qualcosa di estremamente prossimo, perché rappresenta l’unica destinazione assolutamente certa del nostro corpo”. E così, sfidando le autorità sanitarie di tutto il paese a suon di carcasse animali e spazi sottovuoto, nel 1995 Damien Hirst si guadagna perfino il Turner Prize, il più prestigioso premio assegnato ad un’artista vivente sotto la corona britannica.
Parallelamente a quello della morte, lo Young British Artist per eccellenza non tradisce il suo primo amore per il mondo della medicina e della farmacologia: insieme a sculture spellate con organi a vista, reminiscenze dei modellini anatomici di Leeds, e ai Biopsy Paintings, stampe su tela di 2 metri per uno con biopsie di cellule malate, il suo portfolio si arricchisce di pezzi “da banco” come i Medical Cabinets e i Pill Paintings.
Le due serie consistono proprio in quello che annuncia il titolo: i primi sono degli armadietti colmi di medicinali di varie fogge, identici a quelli che potresti trovare dal tuo medico di base, e i secondi delle composizioni fatte di pillole e pastiglie arcobaleno, una sorta di neo-pointillisme ipocondriaco che può sempre tornare utile quando non si trova una farmacia di turno.
Damien Hirst, Male Infertility, 2007
Damien Hirst, Male Infertility, 2007
Damien Hirst, Male Infertility, 2007
L’esposizione del medicamento in un contesto museale permette a Hirst di saldare il conto del macellaio senza abbandonare le tematiche a lui care: nei Pill Paintings la paura della morte viene abbellita, purificata, tradotta nella geometria essenziale di qualche pillola dal nome strano e dal design accattivante.
Oppure viene sublimata in una serie di punti colorati con il nome di una sostanza chimica negli Spot Paintings, interpretati da alcun* come un esempio di cosa può succedere quando un artista si dedica ad una tecnica tradizionale mettendola in pratica su scala industriale e da altr* come un esempio di cosa può succedere quando un artista è a corto di idee.
Negli ultimi anni, nonostante teschi incrostati di diamanti, farfalle sotto vetro, tele ricoperte di mosche e vedute di paesaggi urbani composti da strumenti chirurgici, sembra a molt* che la carica innovativa degli inizi si sia un po’ infiacchita, anche perché, per quanto lo spettro della morte sia sempre attuale, alla lunga è sempre più difficile parlarne in modo originale.
Così, con trovate come una linea di skateboard o un concept restaurant chiamato Pharmacy, mentre scherzava con la morte Damien Hirst ha avuto tutto il tempo di mostrare anche un’altra arte, quella di far girare l’economia, per lo meno la propria; ma questa è un’altra storia.
Forse.