Non molto tempo fa nella ridente città di Berlino si è svolta l’ultima edizione di Transmediale, un festival che da trent’anni trasforma la capitale tedesca in un crogiolo di arte e cultura digitale. Cuore del turbinio di iniziative ed eventi collaterali è stata una mostra chiamata Alien Matter, che si è tenuta presso una Haus Der Kulturen Der Welt uggiosa ma quanto mai suggestiva, nella sua location ai bordi del Tiergarten. Nel testo a catalogo la curatrice Inke Arns spiega che i punti di riferimento teorici sono stati: la nozione di “immateriale” coniata trent’anni fa dal filosofo Lyotard, il saggio sull’obsolescenza dell’uomo del filosofo tedesco Günther Anders e una scena del film Terminator 2, quella in cui Schwarzenegger si ritrova a combattere contro un T-1000, un droide potentissimo che si rigenera dal mercurio liquido. Personalmente il film non l’ho visto, ma la metafora mi sembra chiara: ciò che l’uomo produce di solito gli si rivolta contro. Per quanto riguarda la tecnologia in particolare, essa ha già raggiunto un livello tale di autonomia da sviluppare capacità di apprendimento e raziocinio indipendenti – e spesso tristemente superiori – a quelle del suo creatore.
Presto l’uomo si troverà a vivere in un ambiente governato da androidi, bot e intelligenze artificiali che seguiranno le leggi degli algoritmi che lui stesso ha ideato, ma che non è in grado di controllare. Sfoggiando tutta la sua inventiva di razza superiore, l’essere umano sta costruendo a tavolino la specie che lo andrà a sostituire. Gli artisti scelti dalla curatrice portano nuovi spunti di riflessione su questo tema con opere più o meno tecnologiche ma sempre fortemente evocative, immerse in un’atmosfera quasi lunare. Tra queste ne ho scelte tre che, senza toccare le vette di pessimismo cosmico del buon vecchio Anders, riescono comunque a tracciare prospettive inquietanti su quale potrà essere il ruolo della cosiddetta “materia umida” in un futuro saturo di tecnologia.
La prima opera che mi ha colpito in questo senso è stata un’installazione chiamata Swoon Motion, dell’artista estone Katja Novitskova; un congegno meccanico che sulle prime sembra un incrocio tra una sedia a dondolo e la poltrona del dentista. Avvicinandosi si scopre poi che è soltanto un ovetto per neonati, di quelli elettronici che accesi iniziano a oscillare per cullarli. Questo modello particolare riproduce in audio un battito cardiaco e mentre dondola canta delle canzoncine, un surrogato perfetto di una madre stressata. Appesi in cima al posto di sonagli e specchietti, ci sono tre piccoli cervelli antistress, mentre l’immagine generata al computer della struttura molecolare di una proteina è drappeggiata sul seggiolone a mo’ di copertina. Questi piccoli dettagli aiutano a non scambiare l’opera per un semplice seggiolone comprato su eBay, ma a considerarla come un congegno malefico, capace di sostituirsi alla figura materna e allevare i nostri figli con qualche subdolo trucco. Fantascienza o realtà che viviamo già tutti i giorni senza rendercene conto? Solo una madre potrebbe rispondere.
A quanto pare quindi prima ancora di rimpiazzare le nostre menti stiamo cercando di rimpiazzare il nostro corpo fabbricando esseri analoghi e se possibile più efficienti di quelli fatti della nostra stessa pasta. Tra quelli che non credono che estinguersi sia l’unica via per adattarsi a questa situazione, l’Additivismo è una sorta di movimento di critica alle tecnologie radicali che cerca di rispondere a una domanda molto semplice: riuscirà mai l’uomo a cambiare il mondo senza cambiare sé stesso? La riflessione è argomentata dall’opera The 3D Additivist Cookbook, un manuale realizzato dagli artisti Morehshin Allahyari e Daniel Rourke riunendo i progetti allucinati di più di un centinaio di visionari e teorici dell’aldilà tecnologico.
Richiamate dalla call Additivist Manifesto del 2015, queste personalità hanno trovato uno spazio per dire la loro sulle potenzialità della stampa 3D, che però in questo caso non sembrano aver dato risultati entusiasmanti. A giudicare dai prototipi realizzati ad hoc per l’esposizione berlinese – ipotesi di genitali ispirati a quelli degli insetti in The Evolution of Spermalege e Man Made, una sorta di impugnatura ergonomica che trasforma il celebre pezzo di selce di età preistorica in un oggetto polifunzionale – c’è ancora poco da stare allegri, ma forse è proprio questo il punto.
Se dal punto di vista biologico l’uomo avrà il suo bel daffare per trovarsi una forma adeguata al futuro digitale, sembra che anche sul versante intellettuale potrebbe trovare presto chi gli darà del filo da torcere. Uno degli aspetti più sentiti dagli artisti in mostra è stato proprio quello del rapporto con le intelligenze artificiali, espresso tra gli altri da due opere che con le IA ci mettono proprio in confronto diretto, un faccia a faccia da cui in qualche modo usciamo sempre perdenti. La prima è un video di Sascha Pohflepp chiamato Recursion, dove un primo piano della performer Erika Ostrander recita in loop un saggio composto da un’intelligenza artificiale mixando a caso brani presi da vari testi: saggi di biologia e filosofia, articoli di Wikipedia e canzoni pop. Nata per essere una sorta di trattato sulla razza umana, per quanto delirante il risultato sembra comunque più esaustivo di molti altri.
Il secondo video rincara la dose con un concept che farebbe la gioia di ogni utente di Facebook: uno schermo appeso al soffitto da cui ci parla un’ipotetica IA del futuro, incarnata in un tenero gattino animato per guadagnarsi da subito la nostra simpatia. Oltre a immaginare che i gattini tra trent’anni governeranno il mondo, con Artificial Intelligence for Governance, the Kitty AI, l’artista Pinar Yoldas tesse un racconto catastrofico e poco allettante di un 2039 postcapitalista, fatto di megalopoli controllate da affettuose intelligenze artificiali. Per evitare che tutto questo possa essere liquidato come fantascienza, Kitty AI ce lo presenta come una naturale conseguenza dell’attuale crisi economica, delle migrazioni di massa e dei cambiamenti climatici, eventi attuali come non mai, anche se ancora stentiamo a valutarne la portata. In effetti, data la situazione, non stupirebbe se in futuro l’umanità preferisse boicottare la vecchia classe politica per abbandonarsi alle cure di un software. Le opere in mostra sono così convincenti che alla fine del percorso l’impressione che rimane può essere solo una: in un mondo di presenze inorganiche che agiscono, pensano e presto sentiranno da sole, non è che l’unica materia aliena alla fine siamo proprio noi?