E’ il 1937 quando Salvador Dalì fodera una donna di cassetti come un comodino. In bilico in un paesaggio brullo, quasi lunare, in lungo abito da sera, la dama quasi inciampa nei suoi stessi passi. Peggio ancora, Dalì intitola il quadro La giraffa che brucia, come quella, minuscola, che va in fiamme sullo sfondo. Oltre a dare alla donna l’aspetto di un manichino, la nega relegandola a comprimaria, accessoria rappresentazione. Il fatto che sia in primo piano non cambia il suo stato sociale: i suoi goffi tentativi di stare in piedi non hanno alcuna importanza nell’economia del quadro.
Una simile mancanza di cavalleria si era vista solo in un gesso di Boccioni del 1912, in cui l’artista aveva preso il busto di sua madre e l’aveva trasformato nel ripostiglio di un rigattiere. Nella testa reclinata della povera donna, infossata nelle spalle, l’artista aveva conficcato il telaio di una finestra, rischiando di rovinarle l’acconciatura. Sulla fronte, affilati come rasoi, le piovevano pesanti raggi di sole. Porcellana, pezzi di ferro e capelli bruni si mescolavano per creare una sorta di ibrido polimaterico, un’accozzaglia di materiali in cui l’oggetto aveva lo stesso valore della malcapitata signora.
Salvador Dalì, La giraffa che brucia, 1937
Salvador Dalì, La giraffa che brucia, 1937
Salvador Dalì, La giraffa che brucia, 1937
Salvador Dalì, La giraffa che brucia, 1937
Umberto Boccioni, Fusione di una testa e di una finestra, 1911-12, opera distrutta
Umberto Boccioni, Fusione di una testa e di una finestra, 1911-12, opera distrutta
Umberto Boccioni, Fusione di una testa e di una finestra, 1911-12, opera distrutta
Umberto Boccioni, Fusione di una testa e di una finestra, 1911-12, opera distrutta
Umberto Boccioni, Fusione di una testa e di una finestra, 1911-12, opera distrutta
Un valore anche minore il corpo femminile lo ha assunto verso la metà del secolo, quando tutto si è fatto merce travolto dall’ottimismo tintinnante del benessere economico. In un’opera sadomaso-pop del 1969, Allen Jones ha riprodotto in acrilico e fibra di vetro tre signorine truccate e succinte, battezzandole secondo la loro funzione: una Sedia, un Tavolo e un Attaccapanni.
Agghindate con micro completini di pelle e stivali vertiginosi, le tre miss erano offerte al pubblico in una confortevole installazione. In ginocchio su un morbido tappeto bianco, Tavolo teneva una lastra di vetro in bilico sulla schiena, mentre Attacapanni in piedi con le palme rivolte verso l’alto socchiudeva gli occhi pronta a tenervi il cappello. Incerte tra l’essere bambole kitsch o oggetti d’arredamento, mantenevano comunque una forte carica erotica, capace di rendere chiunque un esperto critico d’arte.
Ormai i tempi erano maturi perché anche uno dei massimi esponenti dell’arte povera come Giuseppe Penone potesse sentenziare “La distinzione tra l’uomo e le altre cose non esiste”, e Arman celebrasse l’evento erigendo una Venere nel sesto arrondissement di Parigi. Sezionato, fatto a fette e malamente ricomposto, il monumento di Rue Jacques Callot è l’effetto di un violoncello, una tavolozza ed un quadro lanciati dal sesto piano su una giovane ignara con il viso della Venere di Milo e di un bronzo del Benin. Il risultato è una divinità schiantata che, più che proteggere le arti, sembra schiacciata sotto il loro peso. In ogni caso il messaggio è chiaro: alla fine del secolo il rapporto donna – cosa è in equilibrio perfetto.
Allen Jones, Tables, 1969
Allen Jones, Tables, 1969
Allen Jones, Tables, 1969
Allen Jones, Tables, 1969
Allen Jones, Tables, 1969
Arman, Venere delle arti, 1992
Arman, Venere delle arti, 1992
Arman, Venere delle arti, 1992
Arman, Venere delle arti, 1992
Arman, Venere delle arti, 1992
Così da fungere da tavolo ad essere un tavolo il passo è davvero breve, tanto che oggi per parlare della donna – ma anche dell’essere umano in generale – spesso l’oggetto è la metafora migliore che possiamo usare. Per questo negli anni ’90 all’artista Sarah Lucas basta infilare una maglietta di cotone su un tavolo e imbottirla con un paio di meloni per creare una figura femminile, due uova fritte e un mucchietto di carne messi nel punto giusto per richiamare alla mente degli organi genitali.
Figure femminili come mobili vecchi, ridotte alla loro funzione essenziale, nella maniera scarna e brutale tipica del suo stile. Nell’arte di Lucas la donna oggetto viene presa alla lettera e denunciata come un problema culturale e sociale, una conseguenza spietata dell’ottica del consumo e del sesso senza amore. Un doveroso cambio di rotta rispetto alle derive pop-porno dei suoi colleghi maschili.
Sarah Lucas, Bitch, 1995
Sarah Lucas, Bitch, 1995
Sarah Lucas, Bitch, 1995
Sarah Lucas, Bitch, 1995
Sarah Lucas, Bitch, 1995
Sarah Lucas, Two fried eggs and a kebab, 1992
Sarah Lucas, Two fried eggs and a kebab, 1992
Sarah Lucas, Two fried eggs and a kebab, 1992
Sarah Lucas, Two fried eggs and a kebab, 1992
Sarah Lucas, Two fried eggs and a kebab, 1992