Per Oskar Schlemmer il mondo si divideva in due: uomini che funzionano come macchine e macchine che assomigliano agli uomini; ma non c’era nessun bisogno di decidere da che parte stare. All’inizio del Novecento la macchina era sulla bocca di tutti e lo sarebbe stata ancor di più dopo la Prima Guerra Mondiale, quando le città d’Europa si sarebbero riempite di reduci di guerra, di soldati rientrati dal fronte e rattoppati alla meglio con protesi d’acciaio al posto degli arti amputati.
Nel dopoguerra la macchina non era più solo un miracolo da ammirare, ma anche un esempio da seguire e un trucco per sopravvivere. Per le arti d’avanguardia la macchina era diventata un modello, un ideale estetico: la bellezza era la lamiera lucida di una carrozzeria; la perfezione era un sistema di pompe a pistoni. La modernità richiedeva prima di tutto un nuovo tipo di uomo, con un nuovo tipo di corpo, preferibilmente tecno-compatibile; un uomo capace di sopravvivere a sé stesso. In quasi tutte le discipline – scienza, cinema, arte, medicina – la soluzione migliore è stata l’automa.
Nella pittura metafisica di Giorgio De Chirico l’uomo nuovo era fatto di assi di legno assemblate coi bulloni, mentre secondo Man Ray doveva somigliare grossomodo ad un appendiabiti; per il Bauhaus invece era solo una questione di forme e colori. In tutti i casi l’evoluzione andava nettamente a discapito del libero arbitrio.
Giorgio De Chirico, Ettore e Andromaca, 1917
Giorgio De Chirico, Ettore e Andromaca, 1917
Giorgio De Chirico, Ettore e Andromaca, 1917
Giorgio De Chirico, Ettore e Andromaca, 1917
Man Ray, Porte mainteau, 1920
Man Ray, Porte mainteau, 1920
Man Ray, Porte mainteau, 1920
Man Ray, Porte mainteau, 1920
Schlemmer, che al Bauhaus teneva un laboratorio di teatro, trovò che la risposta stava nel mezzo: il minimo comune denominatore tra organico e inorganico è lo spazio che li contiene. La sfida era ridurre l’uomo ad elementi geometrici fondamentali, la domanda era fino a che punto si poteva trasformare la figura umana senza che perdesse la sua credibilità, quale fosse il limite estremo dell’astrazione.
Schlemmer decise che il punto d’incontro stava nella geometria euclidea. Decise, ancora una volta, che il futuro dell’uomo doveva essere la marionetta. Per il suo Balletto Triadico prese tre ballerini e li trasformò in pupazzi meccanici; inventò 12 coreografie che divise in tre atti e creò per loro 18 diversi costumi.
Ad ogni atto associò un colore e uno stato d’animo: nel primo tutto era allegro e giallo limone, nel secondo rosa confetto, il terzo era nero e misticheggiante. La struttura, così ordinata, aveva un suo ritmo.
Inglobati in quei costumi di acciaio cromato, elastici e cartapesta, i suoi allievi somigliavano a dei giocattoli: pupazzi giganti in cui i busti erano sfere, le gambe solidi complessi. L’uomo, dalla macchina, aveva preso soprattutto gli spigoli.
Dentro quelle specie di tute spaziali pop i ballerini smettevano di essere umani e diventavano perfetti tanzermensh, cioè macchine per la danza. I loro corpi si muovevano a scatti, rigidi e precisi come delle bambole a molla, cosa che a Schlemmer sembrava il massimo dell’evoluzione.
Forte di questo successo, più tardi Schlemmer ha abbandonato il barocco da negozio di dolciumi per buttarsi nell’astrazione radicale: bastavano alcuni pezzi di legno cuciti sul corpo per creare una danza di rette spezzate, sospese nel vuoto; era sufficiente un gioco di luci per far sparire nel nulla un ballerino.
Di questa opinione era stato anche il collega Kurt Shmidt, quando aveva inventato il Balletto Meccanico, noto anche come Organizzazione teatrale con forme semplici. In scena solo figure astratte dalle articolazioni fluide, a ricombinarsi meccanicamente a ritmo di musica, con dietro ballerini invisibili in total black.
In entrambi i casi le forme e i colori cancellavano i corpi ed eclissavano l’uomo.
Oskar Schlemmer, Danza dei bastoni, 1927
Oskar Schlemmer, Danza dei bastoni, 1927
Oskar Schlemmer, Danza dei bastoni, 1927
Oskar Schlemmer, Danza dei bastoni, 1927