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Ricerche

Sei modi per espandersi nello spazio

By 10 Ottobre 2015Settembre 4th, 2024No Comments9 min read

Fermiamoci per un secondo e proviamo a farci una domanda: dove finisce il corpo? Fino a pochi anni fa la risposta sarebbe stata ovvia: finiamo oltre la pelle, l’epidermide è l’ultimo orizzonte. Eppure, come un tempo facevano notare Freud e Jung, l’uomo non ha mai abbandonato quel brutto vizio di pensarsi illimitato: che il mondo esterno possa fare il brutto e il cattivo tempo, incastrandolo nei tempi e nei limiti, è una cosa che il suo subconscio ha sempre rifiutato di accettare.

Forse è per questo che il pensiero della morte ci fa ancora così orrore, ed è da settantamila anni che inventiamo rituali per assicurarci la vita eterna, e preghiamo, oppure ci facciamo clonare. Il nostro corpo ci è sempre andato stretto, e noi sentiamo il bisogno di diffonderci e dilagare. Di essere ovunque nello stesso momento e da nessuna parte in particolare.

L’uomo ha sperimentato i modi più svariati di estendere la propria presenza sul mondo: lo ha fatto con le caravelle, con le armi e la geopolitica, con la pubblicità, la fibra ottica, le sonde o le navicelle spaziali. Ora, visto che ormai arriviamo dappertutto, abbiamo bisogno di espanderci anche in senso letterale. Negli ultimi decenni alcuni artisti hanno provato a spiegarci come fare.

Ginnastica

E’ il 1977, Marina Abramovic e Ulay si danno le spalle, appoggiati uno alla schiena dell’altro, due lati della stessa medaglia. Sono al centro di una sala di Documenta 6, a Kassel, nudi, come spesso gli capitava, di fronte a un folto gruppo di persone. Fanno una cosa che nell’ambiente si chiama performance, ma a guardarlo sembra molto più simile ad un esercizio di ginnastica posturale.

La posizione di partenza è immobili, stanti, con la schiena dritta e i piedi uniti, quella di arrivo è dritto contro la parete di fronte. Sbattendo sulla pietra il corpo fa un brutto rumore, come un sacco di filetti di manzo rovesciati sul banco del macellaio. Dopo l’urto i due ritornano rapidamente nella posizione iniziale, pronti a ricominciare. Ad ogni collisione le due colonne che hanno di fronte, all’apparenza monolitiche, ma strategicamente semovibili, si spostano di qualche millimetro.

Ogni micro-schianto rimbomba nelle orecchie del pubblico con un brivido di dolore. La coppia, dal canto suo, è chiaramente indifferente all’eventualità di soffrire. Se il dolore non è l’oggetto di questa performance è perché il corpo in realtà non è l’orizzonte finale: il corpo è solo una leva, un piede di porco per forzare uno spazio sbagliato, che non ci hanno tagliato a misura. L’azione si chiama Expanding in space, ovvero prendere a spallate la realtà fino a prenderci lo spazio che crediamo di meritare.

Passeggiate in verticale

Con Man walking on a side af a building non sono più solo gli eroi dei fumetti a camminare sui palazzi di Manhattan, ma anche i ballerini di Trisha Brown. A solo un anno dall’atterraggio sulla luna, la danza contemporanea porta l’uomo anche sopra i tetti, sfidando apertamente la gravità.

Per scongiurare la noia delle superfici piane non c’è bisogno di una camera pressurizzata, bastano le funi degli scalatori. E’ così che troviamo ballerini a passeggio sulle pareti delle sale del Whitney Museum di New York, ballerini che si calano dalle cisterne di SoHo, che camminano sulla facciata di una palazzina di sette piani, rilassati come se stessero portando fuori il cane.

Coreografie semplicissime, solo a testa in giù. Azioni verticali vietate a chi soffre di vertigini. Azioni che tolgono all’uomo l’impaccio del limite e gli permettono di andare dove gli pare. Ma esplorare, la storia insegna, implica sempre colonizzare. Perché calpestare una cosa infondo è già un po’ possederla.

Protuberanze

Sissi nella vita non fa altro che cucire. Lei lo spazio lo occupa anche senza camminare, solo per germinazione. Di solito sta ferma, anche se con le mani non la smette mai di lavorare. Il corpo produce una bulimia di materiale, sintetico, artigianale, fibroso. Come un ragno gigante tesse una tela, la dipana nello spazio, la srotola come faceva Arianna nel labirinto per non perdere la strada.

Crea delle protuberanze, le sviluppa come tentacoli; appollaiata sul ramo di un albero al centro del Brooklin Museum, ci si costruisce un nido, che è anche un buon trucco per non farsi catturare. In The wings have no home, circondata da un bozzolo di nodi, è bella come un uccello tropicale.

Sissi, The wings have no home, 2007
Sissi, The wings have no home, 2007
Sissi, The wings have no home, 2007
Sissi, Il riposo dei miei piaceri, 2000
Sissi, Il riposo dei miei piaceri, 2000
Sissi, Il riposo dei miei piaceri, 2000

Prolungamenti

Per molto tempo Rebecca Horn si è resa celebre grazie alle sue protesi, solo che lei non le chiamava protesi, ma sculture per il corpo. Questi oggetti erano concepiti per essere indossati in modo da modificare alcune attività umane tra la più elementari, come toccare ed afferrare, creando una piccola rivoluzione nel nostro normale rapporto con gli oggetti.

Un paio di guanti con dei prolungamenti per le dita, ad esempio, sarebbe sufficiente per farci raggiungere anche il ripiano più alto della dispensa senza bisogno di usare lo sgabello, o di raccogliere una cartaccia a tre metri di distanza senza fare neanche un passo. Ed ecco quindi i Finger gloves, con cui l’artista riesce a fare anche qualcosa di apparentemente impossibile come sfiorare due pareti della stessa stanza simultaneamente.

Scongiurato l’effetto alla Freddy Kruger, il dubbio resta solo sulla sensibilità di queste terminazioni: quanto più un oggetto è distante dal nostro corpo, tanto più le sensazioni arrivano appannate e mutile. Toccare infatti sottintende sempre un rapporto a tu per tu con l’oggetto, implica la vicinanza corporea; il prolungamento invece estende il nostro raggio d’azione, ci permette di arrivare più lontano, ma sacrifica l’intimità.

Rebecca Horn nella sua carriera ha creato molte altre protesi fantasiose: estensioni per le spalle, per le braccia, un lungo corno dritto sulla testa. Tutte inutili, tutte fallimentari. Nate per potenziare, non liberano mai veramente il corpo, anzi sembrano costringerlo ancora più a fondo. Tolto il valore d’uso, quello che resta è solo desiderio frustrato, quello di spingersi anche solo un centimetro più lontano.

Rebecca Horn, Unicorn, 1970. fotografia della performance
Rebecca Horn, Unicorn, 1970. fotografia della performance
Rebecca Horn, Unicorn, 1970. fotografia della performance
Rebecca Horn, Finger gloves, 1974
Rebecca Horn, Finger gloves, 1974
Rebecca Horn, Finger gloves, 1974

Moltiplicarsi

Un buon modo per occupare spazio è quello di fare numero. Infondo con il sovrappopolamento abbiamo conquistato la terra: riproducendoci febbrilmente, bonificando, edificando, riempiendo muri ed anfratti. E quando la terra è diventata troppo stretta, abbiamo lanciato i nostri corpi in orbita per continuare a colonizzare.

Nelle sue installazioni Spencer Tunick ci dà un’idea abbastanza prosaica di cosa voglia dire moltiplicarsi: riunisce migliaia di corpi nudi, in serie, uno dietro l’altro, talmente retorici da surclassare perfino il caro vecchio voyeurismo dell’orgia d’autore. Corpi su corpi, stipati dentro a un incrocio, ammucchiati sui monumenti di mezza Europa, stesi tra i container di un porto, disseminati nel deserto o sulle rive del Mar Morto; grovigli di gambe, pance, cosce e natiche coprono il suolo, qualsiasi suolo, come un immenso tappeto vivente.

L’artista gestisce le folle come un direttore d’orchesta: basta un ordine e la massa umana cambia posizione, con un gesto si agglomera, con un altro si disperde; il risultato è una gigantesca coreografia di carne, spettacolare, precisa.

In un rigurgito post hippy Spencer Tunick si proclama per un ritorno all’esistenza primordiale, stile Paradiso Terrestre; in realtà invece, non fa altro che sovrascrivere. In una specie di horror vacui bucolico ammucchia i corpi, metodicamente ricopre il paesaggio e lo cancella, riscrivendo di carne la natura.

Tappezzeria

Al massimo grado dell’estensione, il corpo occupa tutto. Non è più solo il veicolo con cui esperiamo il mondo sensibile, ma arriva a coincidere, perfettamente, con il mondo sensibile. Con un’allucinata elaborazione digitale il duo di artisti Aziz+Cucher  è stato in grado di mostrarci l’effetto che fa.

La serie fotografica chiamata Landscape and interiors sembra a prima vista una carrellata di spazi vuoti: colonne, stipiti, scalinate e lunghi corridoi che attraversano una serie di stanze, tutto ricoperto della stessa identica tappezzeria. Niente di speciale quindi, anzi risulta perfino un po’ noioso, come guardare le foto di un appartamento dopo un trasloco. Se non fosse che quello strato di intonaco ha i pori, nei e una leggera peluria sottile. Se non fosse che quell’intonaco non è altro che pelle umana.

Con un semplice gioco di prestigio Aziz e Cucher riescono a scuoterci dalle fondamenta: dopo esserci faticosamente abituati a guardare il nostro corpo come un paesaggio grazie alla tecnologia medica e alle sue endoscopie infernali, ecco che arriva una nuova sfida da accettare: quella di percepire il paesaggio come fosse un corpo. Le biotecnologie infondo ce ne daranno presto la possibilità.

Al di là dello spiazzamento percettivo, delle riflessioni sul rapporto dell’uomo con l’architettura, del ribaltamento interno/esterno, del paradosso di usare ciò che di solito sta all’esterno per rivestire un interno, queste immagini mostrano di fatto l’identificazione tra l’Io e lo spazio, la loro fusione definitiva. Corpo e ambiente, animato e inanimato, sono diventati la stessa cosa.

Aziz+Cucher, Interior #7, 1999- 2000
Aziz+Cucher, Interior #7, 1999- 2000
Aziz+Cucher, Interior #7, 1999- 2000
Aziz+Cucher, Interior #1, 1999 – 2000
Aziz+Cucher, Interior #1, 1999 – 2000
Aziz+Cucher, Interior #1, 1999 – 2000

Allora a questo punto possiamo tornare a chiederci: dov’è realmente la fine del corpo?  Il corpo finisce dove smetto di sentire, termina dove finisce il raggio d’azione dei suoi sensori, dove non è più in grado di operare, o soltanto dove non riusciamo più a vederlo?