Nel mondo vengono praticate più di 23 milioni di operazioni di chirurgia estetica all’anno. Vi si prestano uomini e donne, le donne sono il 90%. Il grado di soddisfazione è altissimo: il 96% delle intervistate è compiaciuto del risultato, l’83% fa il bis, l’86% intende continuare nelle cure estetiche, magari sperimentando trattamenti diversi da quelli che ha già provato. Molt* lo fanno in Sud America perché lì costa meno.
Dove i canoni di bellezza sono sempre più globalizzati, fili silhouette soft vengono inseriti nei visi contro i cedimenti delle guance e del collo; protesi in silicone rimpiazzano zigomi e seni poco pronunciati. Tutti lo fanno per somigliare a qualcuno, Orlan invece lo fa per somigliare a sé stessa.
Lei se la immagina barocca e teatrale, la sua reincarnazione; durante le operazioni spesso legge la Robe, un testo di Eugenie Lemoine che denuncia la pelle come una delle ipocrisie più grandi della razza umana. Alle sue spalle a volte c’è una riproduzione in cartonato di quello che vuole diventare: Monna Lisa, la Venere di Botticelli, Santa Teresa. Sembra la prima di un film in una multisala di periferia.
A volte Orlan luccica di lustrini, splendono anche i suoi chirurghi. Tutto intorno ci sono orpelli un po’ kitsch da sexy shop, oppure da festino di Carnevale. Tridenti di plastica e teschi con le corna, frutta finta, aggeggi gonfiabili e scarpe di raso.
Orlan, Successful-Surgery, 1991. Fotografia della performance
Orlan, Successful-Surgery, 1991. Fotografia della performance
Orlan, Successful-Surgery, 1991. Fotografia della performance
Orlan, Successful-Surgery, 1991. Fotografia della performance
Orlan, Successful-Surgery, 1991. Fotografia della performance
Orlan, Successful-Surgery, 1991. Fotografia della performance
Nell’Operation-Operà del 1991 il vestito è quello di Arlecchino, come il personaggio sulla copertina del libro che tiene in mano. A metà strada tra la Commedia dell’arte e la Fata Turchina, lei indossa un lungo cappello colorato; un abito enorme con il corpetto, tulle nero tappezzato di stelle. Guanti rossi. Capelli blu.
Legge il libro ad alta voce, fin dall’inizio. Dietro di lei degli strumenti che, più che ad una sala operatoria, fanno assomigliare la stanza ad uno studio di registrazione, oppure ad un set cinematografico. Orlan resta sveglia dall’inizio alla fine, si lascia maneggiare come un pupazzo. E’ tranquilla, conserva il suo humor con un sorriso enorme sulla faccia.
Sorride anche mentre le affondano i bisturi nella carne. Le sollevano la gonna, le infilano e sfilano tubi sotto la pelle; armeggiano sulle cosce, srotolano fasciature. Lei continua a leggere, sempre a voce alta. Impassibile, non cambia nemmeno il tono. Non sente niente, è in anestesia locale: quella che ti permette di guardare il tuo corpo come un vestito abbandonato sul pavimento.
Per Orlan un’operazione di chirurgia plastica è come fare la spesa, come una serata a teatro; la sala operatoria è uno studio d’artista. Il vestito che indossa è di Paco Rabanne e Issey Miyake. L’Art Carnal non necessita di dolore, soltanto di musica in sottofondo.
I chirurghi, vestiti come pagliacci, le si affaccendano intorno con i loro aghi e le loro bende di sutura. Tamponano e drenano i liquidi, laboriosi come insetti. Lei sta allungata sul tavolo operatorio come fosse un lettino prendisole a Miami beach.
Sullo sfondo un ballerino di streaptease esegue una performance; ci sono anche mimi, attori e comparse, una folla intera. E lei sveglia, con le gambe aperte e i professionisti addosso, con le mascherine sulla faccia. Orlan è sempre cosciente, non vuole essere scambiata per una vittima sacrificale.
Orlan, Operation-Opera, 1991, fotografia della performance
Orlan, Operation-Opera, 1991, fotografia della performance
Orlan, Operation-Opera, 1991, fotografia della performance
Andare contro natura per Orlan è una via crucis in nove stazioni. La prima operazione, nel ’91, era stata la sua dichiarazione di guerra: non corrispondere al proprio ideale non è una colpa, è solo il punto da cui partire. Il nostro aspetto dev’essere un processo cosciente di scultura del sé, non una ricombinazione genetica data dal caso.
La carne, come la pietra, va sbozzata e rifinita a fondo, a mani nude. L’Art Carnal sostituisce al marmo il tessuto muscolare, fa del bisturi lo scalpello del nuovo millennio. All’idea di una perfezione ideale, l’arte della carne sostituisce quella di una soddisfazione soggettiva, corrispondente all’immagine, intima, sentita, che ognuno ha di sé.
In nome di questo archetipo non dobbiamo lasciar fare alla pelle, adattarci alla forma che vuole; dobbiamo riprendere di diritto il nostro corpo, strapparlo ai processi di consumo commerciale, renderlo unico e irriproducibile, diventare finalmente uguali a noi stessi.
In Omnipresence due chirurghi le sollevano la pelle dal viso, le scavano gli zigomi con pinze e tamponi in rapidi gesti decisi. Lei nel frattempo risponde alle domande di un pubblico in collegamento satellitare dai quattro angoli del pianeta. Si assicura che ogni partecipante abbia il suo ruolo, si assicura di non perdersi una parola.
Risponde a tutt*, dirige la rappresentazione. Coordina le interpreti vestite di nero, dritte come tre Erinni ai bordi del letto, dirige il personale sanitario e l’andamento della conversazione. Dirige il suo cambiamento senza perdersene neanche una goccia. Ancora una volta è importante che l’artista sia cosciente, deve essere cosciente per rispondere alle domande, per scongiurare qualsiasi falsa interpretazione.
E gli altri, tutti dentro la sala operatoria, con i colli allungati sulle poltrone, dentro lo schermo, a guardare la carne violata in tempo reale. A sbirciare dietro le dita fiotti di sangue d’artista. Lei sa sempre dove stanno incidendo anche se non lo può vedere, lo sa e li lascia fare, era tutto calcolato.
Faceva tutto parte del piano, quello studiato fin nei minimi dettagli per farla corrispondere a quello che è. Orlan sa bene che esiste sempre una percentuale di rischio, ma appare naturale come in una seduta dal parrucchiere.
Orlan, Omnipresence, 1993, fotografia della performance
Orlan, Omnipresence, 1993, fotografia della performance
Orlan, Omnipresence, 1993, fotografia della performance
E’ così che l’Art carnal ti permette di scegliere, di non ringiovanire, di non ingrossarti il seno, le labbra, gli zigomi. Di non stirati la pelle se ti va. Ti dà l’occasione di ricomporre il tuo corpo come fosse il salotto di casa, di sistemarlo come più ti piace. Di fare pulizia. Di assomigliarti.
Finalmente non sei tu quella che rincorre la sua faccia nelle foto da ragazzina, per poi finire gonfia di botox a piangere dentro un talk show. Non sei tu a cercare la spalla del presentatore su cui crollare, mentre chiedi i soldi all’avvocato in collegamento video, lontano anni luce, là in cima sul mega schermo. Non tocca più a te chiedere indietro i soldi, una fila infinita di zeri: “Non sono quella che mi avevate promesso”.
Nell’antica Grecia, il pittore Zeusi suggeriva agli artisti di trovare la bellezza selezionando le parti migliori delle modelle migliori. La bellezza ideale non era nient’altro che una somma di parti, si trattava solo di scegliere quali e montarle insieme. Così oggi con la chirurgia estetica si sceglie la parte migliore e quella che si vuole cambiare. Il naso di Tizio, i glutei di Caio. Si prendono un paio di appunti col pennarello e si comincia a ritagliare. Liposuzione, lipofilling e rinoplastica non sono nient’altro che un fotomontaggio.
L’Art carnal invece è l’esatto contrario. Non è nascondersi dietro l’aspetto di qualcun altro, è uscire allo scoperto. É rivendicare la propria unicità, la propria capacità decisionale; il primato della mente che s’informa come vuole, mentre la carne è laterizio, semplice materiale da costruzione.
Passa attraverso nove operazioni chirurgiche la reincarnazione di Orlan; si trascina dietro convalescenze lunghe centinaia di tumefazioni, suturazioni, suppurazioni, rimarginazioni di tessuti. Tutte documentate passo per passo, uno stillicidio. Un giorno alla volta, una dietro l’altra; sono il diario di un corpo che assimila il cambiamento. Un corpo che nel farlo produce scarti e rifiuti, materiale che poi l’artista raccoglie e colleziona: li recupera dal cestino e li rivende a caro prezzo come reliquie, per pagarsi la prossima operazione. Così l’impronta della sua testa su un pezzo di stoffa – tecnica mista, sangue e sudore su garza sterile – oggi vale quasi più di un Manet. E l’artista, come il santo, si fa feticcio.
L’uomo è un essere in divenire. Orlan non ha una forma a cui corrisponde, Orlan è in mutazione. Il corpo di Orlan è poroso e instabile, sempre ricettivo ai ripensamenti alle rimeditazioni. Ci dice che l’Io postumano è molteplice, è un caleidoscopio di identità.
Orlan, Omnipresence, 1993, fotografia della performance
Orlan, Omnipresence, 1993, fotografia della performance
Orlan, Omnipresence, 1993, fotografia della performance
Orlan, Omnipresence, 1993, fotografia della performance
Orlan, Omnipresence, 1993, fotografia della performance
Orlan, Omnipresence, 1993, fotografia della performance
Orlan, Vierge Blanche au nuage de plastique Bulle, 1984
Orlan, Vierge Blanche au nuage de plastique Bulle, 1984
Orlan, Vierge Blanche au nuage de plastique Bulle, 1984