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Ricerche

Manipolazione morbida

By 9 Giugno 2015Settembre 4th, 2024No Comments7 min read

Per tutti quelli che sono scettici, la protesi ha una storia vecchia di almeno 5 milioni di anni. Un alluce di legno rinvenuto su una mummia della V dinastia egizia ha rivelato che il desiderio dell’uomo di sentirsi completo è antico almeno quanto il suo istinto di sopravvivenza. La piccola falange scheggiata che vedete qui sotto, ci racconta che quando si tratta di sopravvivere la necessità di mantenere in vita l’intero è sempre venuta prima del sacrificio delle singole parti.

La protesi, prima che una soluzione a delle necessità pratiche, è sempre stata una risposta al bisogno di simmetria; tuttavia, dandogli la possibilità di completarsi, essa ha contribuito a diffondere una visione frammentaria del corpo come sistema, qualcosa nato da un’interazione tra elementi distinti, ed in quanto tali sostituibili. L’alluce egizio insomma, ci rivela che in qualche modo siamo sempre stati dei cyborg.

Se si fa un rapido tour attraverso la storia della protesi, in un’escalation di polpacci di ceramica e giunture di bulloni, si noterà che nel corso del tempo all’arto artificiale si è richiesto sempre di più: da semplice correttivo estetico la protesi si è trasformata in un elemento attivo, capace di sostituire quasi completamente la funzionalità dell’arto perduto.

Dagli arti di cavi e metallo del Cinquecento, usati soltanto per nascondere un’aputazione, al concetto di Soft Manipulation della scienza robotica moderna (SOMA, come viene chiamato il progetto europeo che si occupa di creare un sistema di manipolazione innovativo), quello che è cambiato è soprattutto la fiducia nella capacità dell’uomo di riprogettarsi. Oggi una C-Leg non permette soltanto di reggersi in piedi, ci promette di tornare a camminare come prima; oggi basta combinare sapientemente titanio e silicone e una mano bionica riesce quasi a farci dimenticare quella che abbiamo perso.

Mentre sto scrivendo un gruppo di volontari sta testando i benefici di My-HAND, un prototipo dell’Istituto di Biorobotica della Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa. Il primo aspetto rivoluzionario di questa protesi è l’attenzione data alla compatibilità tra il corpo e le nuove tecnologie, per rendere il meno traumatica possibile la loro interazione.

L’assimilazione tra il biologico e l’artificiale parte prima di tutto dall’aspetto estetico, progettato appositamente da uno studio grafico. Per rendere la carne sintetica il più possibile simile a quella umana, il designer si è affidato al silicone: gusci di silicone duri fuori e morbidi dentro creano una sorta di guaina bionica che riveste i congegni meccanici nascondendoli agli sguardi indiscreti. Al di sotto di questo involucro carne e alluminio comunicano in armonia perfetta: i microprocessori raccolgono gli stimoli nervosi trasmessi dai muscoli residui ed elaborano rapidamente una risposta: “Le intenzioni della persona possono diventare i movimenti della protesi.” si legge sul sito dell’Istituto.

Ma non è tutto: grazie ad una serie di sensori, la mano bionica è in grado di trasmettere anche sensazioni tattili di rimando, quelle che gli esperti chiamano “ritorno sensoriale fisiologico”. In sostanza: il corpo e la protesi finalmente parlano la stessa lingua.

Al di là del potenziale medico, i progressi della tecnologia indossabile rendono la razza umana capace di rimodellarsi: proprio come anni fa affermavano Simondon e Stiegler: il corpo si scopre un’opera in divenire, che non può mai dirsi completa e conclusa; un indefinito in perenne stadio di configurazione. Grazie a questa sua elasticità, il materiale biologico si offre ad ogni tipo di sperimentazione, non da ultima quella artistica. Proprio come accade per la scienza, il corpo è un materiale prezioso anche per gli artisti, che vi proiettano con entusiasmo le fantasie evolutive più svariate. Così può capitare che la mano prostetica che oggi permette al paziente di tornare alla vita che aveva prima, sia per l’artista un’occasione per cercarne una migliore.

Negli anni Ottanta Stelarc aveva già messo a punto un avambraccio meccanico, composto da acciaio inossidabile, alluminio e congegni elettronici, di forma e dimensioni identiche a quelle degli originali, da impiantarsi sul braccio destro come un arto supplementare. Attraverso un groviglio di cavi ed elettrodi, le contrazioni dei muscoli della gamba e dell’addome dell’artista venivano trasmesse alla protesi sotto forma di segnali elettrici, permettendogli di articolare i movimenti del dispositivo alieno.

Stelarc, Third hand, 1980, fotografia della performance
Stelarc, Third hand, 1980, fotografia della performance
Stelarc, Third hand, 1980, fotografia della performance
Stelarc, Third hand, 1980, fotografia della performance
Stelarc, Third hand, 1980, fotografia della performance
Stelarc, Third hand, 1980, fotografia della performance

La Third Hand poteva muovere le dita, ruotare il polso, afferrare oggetti e restituire sensazioni tattili al corpo ospitante. Inoltre i suoi movimenti riuscivano ad essere indipendenti da quelli delle altre due mani, fornendo al corpo uno strumento in più per interagire con il mondo circostante.

Portando la terza mano con sé nelle sue performance in giro per il mondo, Stelarc ha tentato in questo modo di diffondere un nuovo concetto di protesi e un nuovo modo di considerare il corpo: ha messo in luce la ricettività del nostro organismo nei confronti dell’inorganico, ha sostenuto che riprogettarsi non è solo una possibilità, ma una necessità insita nella condizione umana e nel suo desiderio di sopravvivere a sé stessa. Il materiale organico è deperibile e perfettibile, è vicino al canto del cigno; eppure basterebbe una protesi ben congegnata per salvarci dall’estinzione.

Nel 2003 la genetica ha permesso a Stelarc di realizzare un progetto meno invasivo: un terzo orecchio, ricollocato su un braccio, che fosse capace di ricevere e trasmettere suoni. Dopo aver vinto la resistenza di decine di chirurghi, l’impianto del nuovo organo è stato eseguito nel 2007, attraverso una serie di operazioni.

Una replica perfetta dell’orecchio sinistro dell’artista – un’anima di silicone rivestita di pelle umana coltivata in vitro dopo aver clonato le sue stesse cellule staminali – ed un piccolo microfono sottocutaneo, sono stati innestati nel suo braccio sinistro. Il dispositivo wireless inserito al suo interno permetteva di diffondere in rete i suoni percepiti dall’artista in tempo reale, in modo tale che gli utenti di qualsiasi parte del mondo potessero ascoltarli semplicemente collegandosi ad internet.

Con Ear on arm Stelarc ha ridefinito completamente i termini del rapporto tra il corpo e la tecnologia, in modo che la seconda non intervenga più soltanto in soccorso del primo per scongiurarne la fine, ma che entrambi combinino le proprie potenzialità per raggiungere uno stato inedito, dando vita a configurazioni completamente nuove. Un intervento di questo tipo porta i traguardi della scienza oltre le loro prevedibili applicazioni, traccia nuovi percorsi, sottolinea nuovi problemi. Stelarc ha spinto l’uomo oltre la medicina, verso la riprogettazione in chiave creativa. Una terza mano e un terzo orecchio funzionanti, interattivi, rendono l’illusione della simbiosi tra uomo e macchina quasi possibile. Stelarc ha trasformato l’uomo da sistema chiuso a luogo aperto alle ibridazioni, da tempio inviolabile a campo di sperimentazioni.

Stelarc, Ear on arm, 2007
Stelarc, Ear on arm, 2007
Stelarc, Ear on arm, 2007
Stelarc, Ear on arm, 2007
Stelarc, Ear on arm, 2007
Stelarc, Ear on arm, 2007
Stelarc, Ear on arm, 2007
Stelarc, Ear on arm, 2007
Stelarc, Ear on arm, 2007
Stelarc, Ear on arm, 2007