Il primo passo per superare un limite è prendere atto della sua esistenza: fino a due secoli fa sia per il medico che per l’uomo comune la pelle non era altro che un contenitore. Un semplice sacco per contenere gli organi, un involucro con il compito di mantenere il corpo in un sistema chiuso ed autoreferenziale; ma quando i progressi tecnologici hanno permesso lo studio dell’uomo al microscopio, la prospettiva è radicalmente cambiata. Il corpo digitale e diffuso di oggi è figlio dei primi studi istologici dell’Ottocento, quando, cellula dopo cellula, l’epidermide si è scoperta “tessuto”.
Per definizione, un tessuto è un materiale fatto di pieni e di vuoti, omogeneo ma nato dall’interazione di elementi diversi, ricco di fessure ed intercapedini. Il tessuto che ricopre l’essere umano è composto dalla stessa unità di base di ogni altro organo, la cellula, e come tale possiede la stessa funzione attiva e comunicativa. La dermatologia ci ha insegnato che la pelle non ci isola semplicemente dall’esterno ma gestisce anche le interazioni: la pelle non è un limite, ma un passaggio.
Quasi contemporaneamente a questa scoperta, la fisica ha formulato il principio di ”energia” e ha introdotto il concetto di “ambiente biologico”: il mondo ha preso la forma di un unico grande ecosistema in cui tutti, oggetti o persone, sono costretti a seguire le stesse regole. Al centro di un universo di forze e di leggi, il corpo appare legato all’ambiente che lo circonda da un rapporto molto più complesso di quello tra contenuto e contenitore: informazioni e stimoli scorrono continuamente tra interno ed esterno in un flusso continuo di azioni e reazioni. L’uomo non ha più una forma data ma è plasmabile a piacimento. Che lo voglia o meno l’esterno lo invade, e quando non lo arricchisce lo infetta. La pelle è un diaframma sottile tra l’essere umano e la dispersione.
Intorno al 1890 la serie delle Bagnanti di Paul Cézanne ha inaugurato la lunga epopea degli spettri della frammentazione: il soggetto di queste tele è trattato dall’alba dei tempi, ma questa volta il nudo è portato all’esterno, sulle sponde di un corso d’acqua, in mezzo ai cespugli, e Cézanne lo sbriciola a pennellate. Lo stesso tocco spezzato viene impiegato per costruire la vegetazione e il paesaggio, tanto che, anche se la figura umana possiede ancora dei contorni che permettono di identificarla, la sua pasta è diventata la stessa del mondo che la circonda.
Mentre nella pittura d’Accademia il corpo era ancora fatto di linee e superfici chiuse, nelle tele di Auguste Renoir, Cluade Monet e Georges Seurat il contorno non ha più alcun significato e il tessuto pervade tutto: fronde, ballerini, corsi d’acqua e cagnolini da passeggio. Nelle opere impressioniste la realtà non è altro che una giustapposizione di colori in un intreccio di vuoti e di pieni. In Un dimanche après-midi à l’Île de la Grande Jatte di Seurat, la pelle finisce quando inizia il paesaggio, ma è impossibile dire dove.
Mentre nella pittura impressionista il corpo si scioglie nei fenomeni ottici, i Futuristi lo mandano in frantumi nella terza dimensione. Il tempo irrompe nelle loro tele scardinando l’immagine tradizionale; il movimento coinvolge tutto, soggetto e paesaggio, compenetrando e rimescolando le superfici come in un gigantesco mazzo di carte. Nel quadro Materia la madre di Boccioni sta seduta sul balcone mentre la strada la trapassa da parte a parte.
Grazie alle Avanguardie all’inizio del Novecento il movimento irrompe nello spazio della tela e insegna come plasmare il corpo e come scardinare le due dimensioni: seguendo il paradosso di iniettare la vita in ciò che in teoria ne è solo una rappresentazione, è Marcel Duchamp che raggiunge il risultato più significativo con il Nudo che scende le scale, dipingendo un’azione che si ripete per centocinquanta volte.
Nelle opere degli Espressionisti invece, il movimento è tutto interiore: la materia è un moto ondoso di flussi e riflussi che contorce le viscere e uniforma tutto allo stesso sentimento, mentre nelle fotografie del surrealista André Kertesz la pelle viene stirata o contratta, flessa e riflessa, annodata e strizzata in proporzioni distorte, e il trucco ottico non è altro che una metafora della dissoluzione del corpo. Lo stesso accade nelle fotografie di Anton Giulio Bragaglia, dove gli esperimenti sulla locomozione umana di Etienne Jules Marey e Eadweard Muybridge sono recuperati dal mondo scientifico per farne un nuovo canone estetico. Eliminata la pelle, il corpo si offre simultaneamente in tutti i suoi punti di vista e il Cubismo lo spezzetta sulla tela, lo dissemina e lo scompiglia come un fuoco d’artificio sparato nel chiuso della propria sala da pranzo. In tutta l’arte d’Avanguardia non è possibile trovare una sola opera in cui il corpo umano sia come lo riconosciamo, o quanto meno assemblato nel modo giusto.