Corpi estranei

Qualche giorno fa la notizia dell’ennesimo svenimento alla mostra Real Bodies, inaugurata a Jesolo da un trionfante Cecchi Paone da nemmeno una settimana, faceva bella mostra sulla maggior parte dei quotidiani del Nordest. Dopo la tredicenne soccorsa durante la visita di classe dell’anteprima, un’altra donna ha perso i sensi di fronte a fasce muscolari e tessuti molli, accasciandosi sulle scale del piano terra.
Eppure, come declama il curatore nel video promozionale sulla pagina web dell’evento (qualcosa a metà tra una puntata di Telemarket e la pubblicità di una scatola di pillole dimagranti) qui si tratta solo di divulgazione scientifica: pura e semplice ricerca medica, corpi esibiti come materiale didattico, da considerare né più né meno come tavole anatomiche a tre dimensioni.
Non si tratta di cinema horror, di un museo delle cere, nemmeno di arte contemporanea: sfruttando le potenzialità della plastinazione, tanto chimiche quanto mediatiche, e con un gusto espositivo alla Matrix, l’intento è quello di portare il pubblico alla scoperta del proprio corpo e di ciò che è nascosto sotto la pelle.
Per farlo, come insegna Gunther von Hagens, il padre dei cadaveri plastinati, si hanno oggi solo due strade: pagare il biglietto o aspettare la prossima visita medica.
La meraviglia di fronte a questi corpi spellati infatti non è diversa da quella provata di fronte ad una radiografia: guardiamo l’immagine come una terra aliena, come un paesaggio lunare percorso per la prima volta, in cui saremmo perfettamente in grado di perderci.
L’arto sezionato, nostro o di chiunque altro, ci sembra come un oggetto sconosciuto; la macrofotografia costringe ad un salto di prospettiva straniante che ci impedisce di riconoscerci nei dettagli.
Il titolo della mostra insiste sulla concretezza dell’esperienza offerta: corpi reali, non manichini da studio medico. Esseri umani che in vita hanno firmato una liberatoria per offrire il proprio corpo, da morto, allo sguardo di estranei. Un corpo scarnificato e sottratto in eterno alla decomposizione, di cui il visitatore non può sapere nulla, se non che è reale, non una finzione scenica.
Un corpo in tutto simile al proprio, uguale a quello di mille altri, un sistema di organi da osservare senza compassione. Fascino e repulsione sono le uniche emozioni concesse: la repulsione che fa girare la testa e il fascino che spinge a pagare il biglietto. Al di là delle infinite digressioni filosofico-teologiche sul rapporto tra anima e corpo, la verità è che non sappiamo chi siamo: abitiamo il nostro corpo ma non lo conosciamo.
L’artista Mona Hatoum – che l’aveva capito gà molti anni fa – nell’installazione Corps ètranger aveva permesso ai visitatori un’esperienza ancora più estrema, utilizzando l’endoscopio: una sonda ottica calata nelle cavità più intime del suo corpo e capace di riprodurne le immagini in uno schermo.
L’artista offriva così al pubblico il privilegio di percorrere il suo organismo dall’interno, di esplorare ogni angolo e anfratto di tessuto, vivo, questa volta, idratato e pulsante, ricco di umori e vasi sanguigni.
Le immagini erano proiettate in una pozzanghera circolare sul pavimento, al centro di una struttura cilindrica completamente buia; il visitatore quindi era costretto a guardare tutto dall’alto verso il basso, come se stesse scendendo in un pozzo.
Lo straniamento era amplificato dal suono del battito cardiaco che rendeva completa l’esperienza di trovarsi intrappolati all’interno di un organismo vivo. Un viaggio da incubo, ma allo stesso tempo affascinante e ipnotico; un viaggio a capofitto dentro l’ignoto.

La prospettiva estremamente ravvicinata della telecamera offriva la possibilità di esplorare il corpo umano ad una scala inconsueta e destabilizzante, un’esperienza non diversa da quella che si proverebbe percorrendo per la prima volta la foresta pluviale o guardando il globo terrestre da un satellite.
Nell’opera Deep Throat invece, l’artista la riduce al livello di un’operazione quotidiana incorporandola nel rituale di un pranzo: una tavola coperta da una semplice tovaglia bianca, apparecchiata per uno, un bicchiere, una forchetta, un coltello e un monitor inserito in un piatto, a capofitto dentro la carne. Tra cartilagini e orifizi una cosa è certa: guardarci da vicino toglie l’appetito.
Il nostro materiale organico visto dall’esterno non ci coinvolge come un oggetto, non siamo in grado di non farci toccare. Ci sentiamo in qualche modo partecipi, e in qualche modo sacrileghi: anche se quello che vediamo è solo il corpo di un estraneo, quella che viviamo è l’esperienza di un tabù infranto, è scambiare il dentro col fuori.
Prima ancora che dall’arte, il corpo è oggettivato dalla medicina e dalla tecnologia; ma mentre microscopio, radiologia, endoscopia e simili permettono quotidianamente agli specialisti di spingersi oltre la pelle, nel sentire comune quest’organo rappresenta ancora un limite invalicabile. Esplorare la nostra natura ci sembra contro natura e la pelle è l’ultimo appiglio sull’orlo dell’esperienza astratta.