Tentativi di volo
Nel 1969, Gino De Dominicis cerca di volare. Lo fa da qualche parte sulle montagne, tra cespugli selvatici e ciuffi d’erica, forse perchè per arrivare in alto è meglio partire avvantaggiati e la vetta ti fa percepire lo slancio. Lo fa vestito di nero, anonimo, come spesso capita ai performer degli anni ’70, una maglietta a maniche lunghe, pantalone sformato, scarpe di cuoio: non è su di sé che vuole attirare l’attenzione, ma sul gesto che sta compiendo.
Lo spettatore quindi vede solo lo sforzo, il tentativo disperato e un po’ buffo di proiettarsi in alto, di allungarsi, di abbracciare lo spazio senza sprofondare nel vuoto. Gino tende le braccia e cerca di trasformarle in ali, allunga le dita perchè si convertano in piume, capaci di farsi accettare dal vento annullando il conflitto.

L’uomo, così pesante, come se avesse radici e piombo nelle scarpe, e il pensiero, così leggero e volatile, che punta sempre al di là del possibile, con la carne come un bagaglio scomodo da buttarsi alle spalle per viaggiare leggeri. E l’artista asseconda la sua direzione, cerca di corrergli dietro, lo marca stretto, il pensiero. Cerca di staccarsi dal corpo, o di renderlo della stessa sostanza e portarlo con sé.
Non ci riesce, Gino. La telecamera registra paziente i suoi sforzi, le sue braccia buttate nell’aria, stirate allo stremo, una, dieci, trenta volte, senza successo. Fa quasi tenerezza guardarlo, così concentrato in una missione impossibile; è difficile non sentirsi vicini, sorridere amaramente al tentativo di innalzarsi, che può essere una metafora di qualsiasi cosa.
Con quest’opera De Dominicis ha fallito, non ci ha dato nessuna risposta, non ha trovato una soluzione, ma ha detto tutto quello che c’era bisogno di dire. La mancanza di risultato non ha reso questo lavoro inutile ma quello che doveva essere: l’esternazione di un’esigenza. Senza paura di sembrare folli o ridicoli, avere il coraggio di fissare l’evoluzione, perchè è tutti lì che stiamo andando: al di là dell’organico, verso l’immortale.
Nel 1971 Bas Jan Ader si arrampica su un albero a West Kapelle, in Olanda. Ha 30 anni e un fisico esile e sottile come la pianta che ha scelto, che sembra troppo debole per reggerne il peso. Si lascia sospendere per le braccia ad uno dei rami più lunghi, oscillando nel vento. La telecamera è distante, potrebbe sembrare un quadro di paesaggio se non fosse che lì appeso c’è lui, l’artista.
Fa movimenti nervosi a caccia di un equilibrio, ma sa di andare incontro alla caduta perchè il corpo è un materiale pesante, impedisce di arrivare dove vogliamo, ci ricaccia sempre la testa sotto la sabbia. Con Fall, opera dello stesso anno, la caduta si riconferma un’esperienza ossessiva, in cui l’artista non ha paura di farsi del male mentre sperimenta a fondo la fallibilità del corpo.
Questa volta lo troviamo seduto sul tetto di una casa, la sedia che lo sostiene all’improvviso si ribalta e il suo corpo rotola in giardino al rallentatore. Così Bas perlustra a fondo il momento dell’abbandono, il cedimento, la perdita di controllo; lui in prima persona, noi soltanto guardandolo. Guardandolo ci accorgiamo che è proprio in quei dieci secondi tra la stabilità e lo schianto che si prova cosa vuol dire volare, e forse è proprio questo di cui abbiamo bisogno.

Qualche tempo più tardi, più o meno negli anni in cui Gina Pane si tagliava il viso con una lametta da barba e Marina Abramovic urlava fino a perdere i sensi, un artista australiano chiamato Stelarc resta sospeso per una manciata di secondi nel proprio studio. Ci riesce grazie ad una serie di uncini di metallo ficcati sotto la pelle, collegati a cavi appesi al soffitto.
Per tredici anni Stelarc ritenterà l’esperienza in varie parti del mondo, da una spiaggia deserta all’11a strada di New York. Proverà in posizione seduta, orizzontale o supina. Cercherà di bilanciare il proprio peso appendendo all’altro capo dei fili delle rocce, nudo cercherà di allungare il tempo sfidando per qualche secondo ancora la gravità.
Stelarc è più vicino ad uno scienziato per questo: ha aggiunto alla ricerca il progetto di una soluzione. Ha cercato di trovare un metodo che stracciasse i confini del corpo, ha cercato di stirare la pelle e di espanderla; ha tentato di mortificare l’organico per rivelare quanto sia diventato asfittico e obsoleto.
La carne non reagisce all’elasticità del pensiero, è reazionaria ed immobile. Schiava del suo peso, non cambia la sua forma. E’ predeterminata e vincolante, l’uomo ci sta stretto, lì dentro manca l’ossigeno. L’uomo vuole tenere il passo, accorciare le distanze e andare lì dove va il pensiero.
